A Marettimo

L’unica poesia che ci ha lasciato mia madre recitava:

L’ultimo punti dello stivale

è un’isola meravigliosa che fa incantare.

Il sole dal mar vede spuntare

e i primi raggi è pronta ad afferrare.

Tranquillità e pace è il suo medicinale.

L’isola del pescator si può chiamare

perché l'unica fonte di vita è il mare.

 

Mia madre mi ha trasmesso l’inguaribile nostalgia per quest’isola, dove sono nato il 27 aprile del 1953 a pochi metri dal mare e dagli scogli di punta San Simone. Mi hanno dato il nome di mio nonno materno Giuseppe, essendo secondogenito: al primogenito spettava il nome del nonno paterno Salvatore, detto u mignuneddu. Ho vissuto a Marettimo i primi sei anni della mia vita, ma i ricordi della mia prima infanzia vanno fino ad almeno i miei due anni, quando una coppia di turisti tedeschi voleva convincere i miei genitori ad adottarmi. Mi ricordo ancora attaccato alla gonna di mia madre e lei che ridendo e parlando con i suoi ospiti mi accarezzava i capelli per rassicurarmi. La vita dei marettimari, allora, era molto difficoltosa e si stentava appena a sopravvivere, ma si viveva bene, in semplicità con una indiscussa solidarietà che legava tutti gli abitanti dell’isola come fosse una sola famiglia. Molti in quegli anni continuavano a emigrare soprattutto verso gli Sati Uniti, dove, tra Monterrey e San Francisco formarono una comunità marettimara più numerosa di quella rimasta sull’isola. Altri emigrarono in Tunisia, per la pesca delle spugne, o in Portogallo per l’inscatolamento delle sardine, nel continente (come chiamavamo il resto dell’Italia) o perfino in Israele.

Ricordo il tragitto che facevo per andare da solo all’asilo con un cestino di cartone in cui la mamma metteva la merenda (della frutta e un pezzo di pane) e ricordo una bambina che mi aspettava all’inizio della Chiusa[1]per andare insieme, mano con mano, a raggiungere l’asilo e la scuola in fondo alla Chiusa, cantando una canzoncina di cui ricordo ancora il motivo e alcune parole: “Lola, vuoi andare a scuola, ti canto una canzone, cià cià cià cià cià”… o qualcosa del genere! Non so se era la stessa amichetta della storia della paperella. Giocavo a casa di lei, abitava nella porta accanto di mio zio Vanni Vanni e mia cugina Ati [2], con una paperella di plastica, meraviglia della modernità, non costruita dal nonno o dal papà nei giorni di tempesta: una paperella che si muoveva dandogli la corda e che una volta, chissà come fu chissà come non fu, s’infilò sotto un armadio. Cercando di riprenderla e infilando anch’io le mani e la testolina sotto l’armadio… restai incastrato senza poter andare né avanti né, soprattutto, indietro. Alle grida della compagnetta e a quelle di sua madre, di mia cugina e di tutto il vicinato, finalmente qualcuno riuscì a tirarmi fuori. Diventò “a storia ra paperedda” che ogni volta che passo da quella stradina c’è sempre qualcuno che me la ricorda ridendo sotto i baffi ed esordendo: «t’arricordi…(a storia ra paparedda)».

Cose che succedevano al di là del mare dove le case non si chiudevano a chiave e i bambini, ma non solo loro, entravano e uscivano da tutte le porte come fosse casa loro!

Mio padre era quasi sempre in mare, quando il mare lo permetteva. Ancora oggi amo l’inverno (mio padre no!) e il Natale, perché in inverno il mare era spesso in tempesta e mio padre rimaneva a casa. Soprattutto nel periodo di Natale erano i giorni in cui anche mio padre era con noi a costruire il presepe in casa. Ogni anno bisognava rifare le casette, raccogliere il muschio e i minuscoli pezzetti di legno o di giunco… ed era bello: profondamente bello! L’aria era intrisa dell’odore dei biscotti, che perfino i pescatori avvertivano ancora in lontananza appena doppiavano Punta Bassano o il Castello. E poi le giocate a carte, a piatto, a sette e mezzo, a bestia facendo il giro di tutto il vicinato: una sera da uno, una sera dall’altro, mangiando viscotta ri Natali, cosaruci e mennuli atturrati[3] e, per gli uomini, sorseggiando rosolio. Tutto il paese era a casa a Natale… e nessuno… nessuno era, si lasciava o si sentiva solo!

Poi c’era carnevale, prima che la quaresima ricordasse che quelli del continente in quel periodo non mangiavano carne. A Marettimo invece l’astinenza della carne durava dodici mesi, con qualche giorno di eccezione nelle grandi feste, la più grande delle quali era (ed è ancora!) il 19 marzo: San Giuseppe, con l’alloggiate, l’ammitata ri santi, l’artari ri Sagnuseppi in ogni casa, tutte le barche rigorosamente in porto, a prucissioni, l’adduminiara e u pani ri Sagnuseppi.[4] In quei giorni, i marettimari da ogni dove si raccoglievano nell’isola: un richiamo che si ripeteva il 2 novembre per i morti e a Natale. Carnevale cadeva o subito prima o subito dopo la festa di San Giuseppe, a seconda se la Pasqua cadeva alta o bassa nell’anno. Erano i giorni in cui gruppi di amici o amiche o di parenti si mettevano insieme per fare scherzi ad altri amici, a parenti o a persone cui si voleva dare una bonaria lezioncina. Ricordo mia madre che un giorno di carnevale si vestì da uomo con la complicità di sua zia, a soru Maria, e con la pistola alla mano fermò mio padre il giorno dei conti.[5] Io seguivo tutto a poca distanza, perché avevo assistito in casa della soru Maria a tutta la preparazione, ma mandai tutto in fumo, quando mia madre a volto coperto intimò a mio padre «o la borsa o la vita!». Scoppiai in un pianto dirotto che fece correre tutti verso di me, svelando e rovinando lo scherzo. Ricordo come mio padre rise mettendo la mano sulla spalla di mia madre (abbracciarsi e baciarsi affettuosamente in pubblico anche tra marito e moglie era considerato molto sconveniente!) e, dopo aver fatto un gesto di saluto alle “comari” che ridevano a crepapelle, mi tirò in groppa alle sue spalle. Poi tutti in piazza, a sbagnare i cunti[6]e lo scherzo no’ zi’ Ciccinu.[7]

A proposito della gelateria du zi’ Ciccinu, a volte capitava a mio padre di andare a prendere un caffè e di vedersi presentare un conto un po’ salato, per un caffè. Ma mio padre sapeva di cosa si trattava. Spesso andavo, nelle giornate calde d’estate o nelle feste nella gelateria: prendevo un gelato o una cosaruci e poi dicevo: «paca me’ patri quannu passa!».[8]

La soru Maria, detta da chi non era della famiglia “Maria Capaciota” (figlia di Paolo u Capaciotu)[9], io la chiamavo mamma zizì.[10] A causa della salute cagionevole di mia madre o perché Maria Capaciota aveva avuto solo una figlia femmina, “mia cugina” Enza, io vivevo quasi in pianta stabile dalla mamma zizì sia a Marettimo che quando, come racconterò, ci siamo trasferiti a Trapani. Era lei che riusciva a farmi addormentare. A cavalcioni sulle sue gambe incuneavo la mia testolina tra il suo seno e l’ascella e il mondo si addormentava con me. Mi raccontano (… ogni volta che ritorno a Marettimo!) di un quadro di san Giuseppe che pendeva in una parete della sala della mamma zizì. Le lotte con mia madre e le sculacciate che prendevo erano per le scarpe o i sandali che non riuscivano a farmi indossare e, quando ci riuscivano, le toglievo appena fuori casa: m’impedivano di saltellare tra gli scogli dello scarimezzu[11] (… mi riesce difficile ancora oggi immaginare come potessi giocare tra gli scogli con tanta disinvoltura, ma io, Marettimo e il mare eravamo una cosa sola!). Ritornando al quadro: in braccio a San Giuseppe un bambinello paffutello e sorridente non aveva le scarpe! Un giorno, davanti a quel quadro, tra l’ilarità di tutti, esclamai: «Povero bambinello… adesso quando sua madre si accorge che si è tolto le scarpe chissà quante sculacciate gli darà!».

Cose che succedevano al di là del mare dove la vita era fatta di semplici cose, di allegre complicità, quando non si parlava ancora di famiglie allargate, ma di famiglie larghe… molto larghe… quanto un intero paese, il cui padre era il mare e la madre l’isola!

Il mare è da sempre stato la mia grande attrazione: un’attrazione fisica, emotiva e spirituale. Amo il mare calmo, ma anche il mare in tempesta. Mi affascina il momento dell’albaria, quando il mare, prima della brezza mattutina è di una bonaccia piatta piatta e il mare sembra una grande tavola di cristallo. Rimango ancora oggi in estasi alla vista del mare in tempesta che s’infrange sugli scogli. Tutto questo ha qualcosa di sacro, come quando le donne e i bambini al molo dello scarimmezzu gettavamo il pane di San Giuseppe tra le onde pregando che fosse salvaguardata la vita chi si trovava nel mare in tempesta: prima tra tutti la vita dei pescatori di Marettimo. Ricordo di una volta, non avevo più di tre o quattro anni, in cui mi nascosi nel gavone di poppa del peschereccio di mio padre poco prima che salpasse per la battuta di pesca. Mi addormentai sulle reti e senza che nessuno si accorgesse della mia presenza il peschereccio prese il largo. Se ne accorsero quando andarono a prendere le reti per calarle in mare. Intanto tutta Marettimo era alla mia ricerca tra la disperazione di mia madre e di tutta l’isola: sarà caduto in mare? Si sarà avventurato sulla montagna da solo e sarà caduto in un dirupo?… Il peschereccio avvisò via radio della mia furbata tranquillizzando tutti e, comunque, non poteva tornare indietro ormai, avrebbero compromesso il guadagno di diverse famiglie. Ma poi scoppiò una tempesta e furono costretti a riportarmi a Marettimo, con un problema: il mare era grosso e non potevano attraccare alla banchina. Ricordo ancora che al largo dello scaruvecchiu gettarono l’ancora col motore sempre acceso, calarono una scialuppa: mio padre ai remi e Nino Galuppo, lo zio materno di mia madre, che mi teneva in braccio a poppa avvolto in una coperta. Tutto il paese era sul molo, ‘ntesta a banchina, lo ricordo come fosse oggi. Vedo ancora mio padre che lottava con le onde a colpi di remi per riportarmi sano e salvo da mia madre. Mia madre non mi sgridò e come in processione mi accompagnarono a casa. In testa a tutti mio nonno Peppino, mio zio Tutua e il suo inseparabile amico Giufà e vicino di casa, che amava prendermi in groppa sulle spalle, ma che doveva anche subire gli spruzzi del mio pisellino che non sapevo ancora controllare.

Una delle prime barche che acquistò mio padre credo si chiamasse Agata Madre, in onere di mia nonna Agata Rallo. Per il suo strano modo di rollare, scherzosamente i pescatori rinominarono l’Agata Madre u pappagghiuni.[12] Io ero chiamato, dalla combriccola di mio zio Tutua, u spadduni di Tutua,[13] perché seguivo mio zio, allora poco più che adolescente, ovunque andasse. Di questa allegra compagnia ricordo Giufà e Linuccio, che mi canzonavano dicendomi che u pappagnuni non era di mio padre e quindi non era mio. Io mi arrabbiavo tirando calci e ripetendo continuamente: «u pappagnuni è meu, u pappagnuni è meu…»; un’altra storia che mi raccontavano sempre ogni volta che m’incontravano a Marettimo quand’ero più grandicello. Adesso Linuccio e Giufà vivono entrambi a Monterrey, in California, ma in estate e a San Giuseppe li si possono incontrare a Marettimo.

Indelebile è ancora il ricordo di mio nonno Peppino,[14] di quando mi portava alla mànnara[15] a prendere la ricotta col siero o di quando ritornava a casa (abitava a dieci metri da casa mia) con i fichidindia appena raccolti. Li sbucciava sapientemente nel cortile dietro casa, davanti allo Zuttuni,[16] e cercava d’insegnarmi come si sbucciavano, e quante se ne dovevano mangiare al massimo per evitare d’attuppari,[17] sconsigliandomi di bere acqua subito dopo. Di mio nonno ricordo la sua bottega (ora casa di mio zio Tutua). Era il ciabattino del paese e per questo nominato mastru Pippinu: una vera e propria macchietta, molto scherzoso, sempre allegro e di buon umore. Soprattutto sapeva mettere gli altri di buon umore e combinava scherzi a mai finire. Per questo nella sua bottega non era mai solo. Si andava lì per ridere un po’, avere notizie di tutto quello che succedeva in paese e riportare notizie dalle lettere che si ricevevano dai parenti lontani o che si sentivano alla radio, per quei pochi che si potevano permettere di avere una radio in casa: il dottore Casapinta, il maresciallo di finanza, il maestro e poche altre famiglie. Credo che neppure il parroco ne possedesse una. La bottega di mio nonno era come quando oggi si apre un giornale o come quando si accende la televisione per avere notizie dal telegiornale… ma in modo più rilassato, più colorito e più umano, aggiungendo qualche pettegolezzo di paese! Nelle serate d’inverno, quando non si giocava e’ mennule, riservato alle donne e ai ragazzi, passava dalla bottega il maestro o chiunque sapesse leggere e declamare per leggere, con arte, qualche teatro dialettale siciliano di Nino Martoglio: il preferito era senza ombra di dubbio il San Giuvanni Decullatu.

Un altro luogo di ritrovo e di scambio di notizie era l’emporio-taverna di Decu u mutu,[18]  o la taverna in fondo alla strada di mezzo, dove il nonno con i suoi amici ( u zi' Affronzino, u Cagnolu che ricordo monco di un braccio e non so più chi!) andava a giocare a carte la sera e per bere un bicchiere di vino (forse anche qualcuno in più!) portandosi da casa le patate bollite per accompagnarle al vino, perché in Sicilia è buona creanza e buona usanza non bere vino prima di pranzo o comunque al di fuori dei pasti o senza mangiare qualcosa. Andavo spesso col nonno da Decu u mutu, perché mi piaceva ascoltare le storie che si raccontavano ed ero affascinato dal gioco delle carte, dalla forte botta sul tavolo quando vi si gettava la carta al grido “Scupa!” o degli improperi che si lanciavano gridando santiannu a dritta e a manca quando il compagno sbagliava mano. Restavo almeno fino a quando mia madre non veniva a prendermi e a riprendermi e a dire a suo padre di non esagerare e di non fare tardi... ma mio nonno faceva spesso tardi!

A proposito degli scherzi del nonno, una volta prese la bambola che mia nonna teneva sempre sul letto matrimoniale a’cunsata ru lettu[19] (usanza credo che allora era di tutte le famiglie marettimare e non solo). Era una bambola che quando si piegava all’indietro suonava come la voce di un neonato. Mio nonno pensò d’inserire sotto la gonna della bambola qualcosa che non era proprio tipico femminile. Quando entrava una donna in bottega, si lamentava che la bambola non suonava più e che non sapeva come ripararla. Ovviamente subito le donne si precipitavano a vedere cosa avesse la bambola e alzandola e capovolgendola vedevano “il coso” che spuntava sotto… suscitando la sorpresa e l’ilarità degli astanti. La signora, che aveva subito lo scherzo e che rideva insieme agli altri, si sedeva aspettando di ridere all’arrivo della prossima ignara comare.

Una volta, insieme a suo fratello, zio Affronzinu,[20] e ad altri amici insieme ai quali formavano una combriccola di buontemponi, arrivarono in piazza trainando un carretto, indossando un camice bianco e simulando l’arrivo di un’ambulanza. Sul carretto uno della bella combriccola fungeva da ammalato con un pancione esageratamente gonfio. Mio nonno era il medico che subito iniziò l’operazione, mentre gli altri allontanavano la folla che si era subito raccolta intorno al carretto per gustarsi la scena e avvisandoli che si trattava di un’operazione urgente che richiedeva silenzio. Mio nonno aprì la pancia del “degente” dalla quale uscirono diversi chili di salsiccia che tra le risate compiaciute dei compaesani fu arrostita e condivisa, mentre altri andarono a prendere chi il pane, chi il vino chi qualche patata bollita. Era il teatro, lo spasso e l’arte di saper vivere dei nostri padri marettimari.

Uno scherzo (…e che scherzo!) lo subì, da parte di mio nonno, lo zio Michele. Questi era appena rientrato a casa dalla tratta,[21] affamato e infreddolito, trovò mio nonno a tavola che mangiava qualcosa che aveva l’aria di essere molto saporita e appetitosa. «Chi manci papà», «Assettati e mancia, figghiu meu».[22] Lo zio Michele non se lo fece ripetere due volte e, affamato com’era, non si accorse che il padre non gli aveva detto cosa stava mangiando, ma lo chiese alla fine, quando, sazio, volle sapere cosa avesse mangiato: «Cugghiuna ri vistiolo[23], fu la risposta divertita del nonno. È da allora che mio zio continua a sputacchiare!

Una storia che mi raccontava mia madre e miei zii era quella della gallina ammalata. Mio nonno chiese un giorno alla nonna di cucinare una delle grasse galline che teneva supra l'astracu.[24] La nonna rifiutò categoricamente di cedere a quella strana richiesta. Le galline erano per le uova e quando c’erano le feste si spinnavanu[25] quelle che non davano più uova. Ma mio nonno aveva proprio desiderio di carne e non ne poteva più di mangiare cicireddu: cicireddu cu l’ova, cicireddu ca sarsa, cicireddu frittu[26] Escogitò allora di infilzare di nascosto uno spillo nella testa di una delle galline, che subito stramazzò morta a terra. Poi quatto quatto ritornò nella sua bottega come se nulla fosse. Quando la nonna si accorse della grave perdita si mise le mani ai capelli gridando tutta la sua disperazione. Accorsero subito mia madre e la sorella Maretta e con loro le vicine di casa... tutte le vicine di casa, fin dove le grida della nonna arrivavano! Una di loro, sentite le grida di nonna Sebastiana si premurò di chiamare il nonno, che accorse confortando la nonna e biascicando tutte le parole di rammarico per l’accaduto. La decisione della nonna, che non sapeva di quale grave malattia fosse morta la sua gallina, fu di sotterrarla subito o di gettarla in mare. Mio nonno, però, coraggiosamente non permise che ci si privasse di quella buona carne e ordinò alle figlie di cucinarla. Ovviamente la sera a cena nessuno ne volle mangiare… ad eccezione del nonno che se la sbafò per intero. Mia zia Maretta si era accorta della spilla cucinando la gallina, ma non disse nulla per evitare un litigio furibondo in casa e, per complicità con suo padre, mangiò anche lei solo cicireddu quella sera!

Cose che succedevano al di là del mare dove la fame acuiva l’ingegno e l’ingegno indulgeva ai “temerari”.

Da questo mondo, perché Marettimo era un mondo a sé, autosufficiente e isolato da tutto, fui strappato poco dopo l’inizio della scuola, alla prima elementare. Mio padre s’imbarcò su motopescherecci più grandi che non potevano attraccare a Marettimo e fummo costretti a trasferirci a Trapani. Ricordo ancora il trasloco delle nostre poche cose, il saluto, gli abbracci e il pianto di tutto il vicinato e del parentado e di quanti c’incontravano nel tragitto dallo scarimmezzu allo scaruvecchiu. Non volevo andare via. Non volevo lasciare Marettimo: fu come lo strappo doloroso di un cordone ombelicale con l’isola dove ero nato. Ricordo anche, però, la meravigliosa traversata di quella notte. Era una calma notte di ottobre. Ero coricato a poppa con mia madre e i miei fratelli sotto una calda coperta mentre vedevo diventare sempre più piccolo Pizzo Falcone.[27] Ricordo ancora il cielo stellato. Tutto il firmamento era sopra di me e attorno a me. Vedevo Cassiopea e il Cigno, vedevo il grande e il piccolo carro e la stella polare, e Orione e l’immensità sopra e attorno a me. Mi sentivo parte e immerso in qualcosa di meravigliosamente puro, infinito e protettivo. S’impresse quella notte nella mia anima l’immagine di Dio! Come un legno immerso nel mare, mi sentii quel giorno spinto verso l’alto.

 


[1]    La Chiusa era l’unico spazio ampio in terra battuta che era situato, allora, in testa al paese verso la montagna. I pescatori vi stendevano le reti per poterle sarcire. Ora è stata occupata per più di metà dall’oratorio, dalla biblioteca e quella che era nata come casa delle suore, che per un breve periodo soggiornarono a Marettimo. Alla Chiusa, per diversi anni si piantava un tendone e si invitava un gruppo di attori, cantanti e artisti da circo, in occasione delle festività di San Giuseppe.

[2]   Lo zio Vanni Vanni (Giovanni Aliotti) era fratello di mio padre da parte di madre ed aveva una sola figia: Agata, sposata incaviglia.

[3]    Biscotti di Natale, dolci e mandorle tostate.

[4]    La festa di San Giuseppe è il cuore della cultura e della fede marettimara. Si scelgono tre marettimari, che saranno i tre santi della festa, due uomini e una donna (è indifferente l’età) che hanno fatto un voto al santo o scelti tra i meno ambienti del paese (sono anche detti, infatti, i tre poverelli) e che saranno i protagonisti di due riti centrali della festa: l’alloggiate e l’ammitata. Il 10 marzo inizia la novena che culmina con l’alloggiate, alla vigilia della festa, in cui i tre poverelli girano per il paese bussando nelle porte per chiedere alloggio che viene rifiutato, ad imitazione dei racconti della natività. Per loro saranno aperte solo le porte della chiesa, che accoglie tutti. Il giorno della festa c’è l’ammitata: su un palco sopraelevato si serve in piazza un sontuoso pasto ai tre santi con cibi e dolci preparati e serviti da famiglie che hanno fatto il voto. La processione con la statua del santo gira per il paese e l’adduminiara è uno o più falò in cui anticamente si bruciavano le vecchie barche in disuso. In quei giorni si distribuisce e si benedice il pane di San Giuseppe, piccoli pani rotondi su cui è incisa una croce e che si conservano nelle case.

[5]    Il giorno in cui i pescatori si dividevano il guadagno della pesca.

[6]    “Sbagnare i cunti”, festeggiare la paga.

[7]     Ciccinu, Fracesco, teneva una sorta di bar, gelateria nella piazza del paese. Esiste ancora ma non appartiene più o zi’ Ciccinu.

[8]    “Paga mio padre quando passa”.

[9]    “Capacioto” è l’abitante di Capaci, la cittadina nei pressi di Palermo, tristemente famosa per la strage mafiosa in cui morirono il Giudice Falcone e la sua scorta. Si ritiene che capacioti erano i primi abitanti stabili dell’isola già nel XVII secolo, dopo l’abbandono forse a causa della guerra barbaresca che imperversò per tre secoli a partire dalle concquiste arabe, quando sareceni e pirati di ogni genere si riparavano nell’isola.

[10]   È uso chiamare “mamma zizì” (zia mamma) la zia materna, in genere la zia più anziana in segno di rispetto e di affetto; ma potrebbe essere anche una delle altre zie materne che aiutano ad accudire i inipoti come una sorta di madrine facendo (gratuitamente) da babysitter e aiuto familiare tuttofare: una spalla su cui appoggiarsi.

[11]  Scalo di Mezzo. Lo “scaru” (scalo) era di per sé la spiaggia in cui si tiravano le barche a secco, ma che con la costruzione di una banchina dove potessero attraccare le barche era diventato un porticciuolo. A Marettimo c’enerano tre: lo Scalo Vecchio (u scaruvecciu), Nord del paese, lo Scalo Nuovo (u scarunovu) a Sud e lo Scalo di Mezzo (u scarimmezzu) a levante tra Punta San Simone e u scarunovu, probabolmente il più antico dato che il primo insediamento del paese nacque proprio a Punta San Simone.

[12]  Falena.

[13]  Il braccio destro (la spalla) di Tutua.

[14]  Mio nonno Giuseppe Bonanno era sposato con Sebastiana Incaviglia dalla quale ebbe Lina, Michela (mia Madre), Michele, Maria (chiamata da sempre Maretta) e Salvatore (detto Tutua, dalla storpiatura del suo nome che non sapeva pronunciare da bambino). Aveva un solo fratello Alfonzo che aveva due figli: Linuccio ed Enza.

[15]  Ovile, il luogo dove i pastori, oltre a custodirvi la greggia, lavoravano il latte per produrre formaggio e ricotta. È usanza in Sicilia, andare a volte dai pecorai al mattino presto, quando lavorano il latte, per mangiare la ricotta fresca in siede al siero, aggiungendo del pane.

[16]   Lo Zuttuni era una sorta di conca tra gli scogli prospicnete le case a levante di via San Simone, che si affacciavano nello scarimmezzu. Lo Zuttuni era una sorta di piscina naturale, poco profonda, dove mia madre mi insegnò a nuotare e dove le ragazze facevanmo il bagno protette dalle donne sposate che impedivano ai maschi di avvicinarsi, bambini esclusi! Un altro luogo dove le sole donne potevano fare il bagno era appunto u bagnu ‘i fimmini (il bagno delle donne) dopo u scaruvecchiu, dove le ragazze potevano fare il bagno (vestite!) protette da un’anziana signora che con un bastone in mano si metteva nel viottolo che portava a quella spiaggetta impedendo a quasiasi maschio di avvicinarsi.

[17]   Costiparsi.

[18]  Diego Sercia, detto « u mutu » (il sordomuto), padre di Giancarlo e Maria, miei coetanei.

[19]  Quando al mattino si rassettava il letto si poneva la centro una bambola che si regalava per il matrimonio per l’augurio di avere figli e che si teneva poi per abbellimento e come segno che tutto era in ordine. Mai una donna del meridione d’Italia sarebbe uscita di casa, al mattino, se prima il letto matrimoniale non era stato rassettato.

[20]   Alfonzino, vezzeggiativo di Alfonso.

[21]   La pesca alla tratta era in uso nelle Egadi.

[22] «Che stai mangiando papà», «Siediti e mangia, figlio mio».

[23]   «Testicoli di bue!»

[24]   “sopra il tetto a terrazza”, tetto piatto con un muretto di rinforzo tipico delle case di tutta l’area meridionale del Mediterraneo.

[25]   Spennavano.

[26]   Il cicirello è un pesce di mare minuto e di poco valore della Famiglia Ammodytidae di cui è l'unico membro mediterraneo, molto abbondante nel mare delle Egadi. Non è un caso l’espressione che si usa dire qunado qlcuno porta in regalo qualcosa di superfluo e inutile: “purtari cicireddu o’ Maretamu” (portare cicirello a Marettimo).

[27]   Pizzo Falcone e la cima più alta della montagna di Marettimo (686 m.).