Il Padre nostro: problemi di traduzione e di comprensione
di Giuseppe La Torre
Premesse
Il presente contributo intende mostrare alcuni aspetti utili alla comprensione della preghiera insegnata da Gesù soprattutto in ordine alla sua traduzione italiana e suggerendo alcuni spunti di riflessione sul significato e su possibili letture del testo.
Da diversi decenni, comunque, a livello ecumenico ci si adopera per la formulazione di un Padre nostrocomune e condiviso dalle varie chiese cristiane e non sono mancati incontri e convegni a livello ufficiale e ufficioso. Per la prima volta nel 1999 la Conferenza Episcopale italiana (CEI), la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) e la Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia hanno concordemente organizzato un convegno sul Padre nostro, svoltosi a Perugia dal 12 al 15 aprile. Tale convegno ha costituito certamente un tentativo e un progresso importanti lungo il cammino ecumenico, ma le conclusioni, gli auspici e la formulazione finale di un Padre nostrocomune alla fine del convegno non hanno suscitato unanimità di consensi nella base delle chiese e nel cambiamento di secolari abitudini liturgiche.
Gli studiosi sono abbastanza convinti dell’opportunità di una versione critica aggiornata del Padre nostro, ma non lo sono ancora i responsabili delle diverse chiese e gli organi sinodali dei protestanti, fatta eccezione per la Svizzera romanda, dove in diversi sinodi è stata adottata la versione ecumenica proposta dalla Conferenza Episcopale di Francia. Non è facile rieducare intere masse alla variazione della preghiera più conosciuta e radicata nella devozione di tutti i cristiani, che l’hanno appresa fin dalla più tenera età. Pur nei limiti di tale precisazione non va, tuttavia, sottovalutato il segnale proveniente dalla comparsa di una versione “concordata”. La versione in italiano del 1999 presentata a Perugia è diventata quella recitata negli incontri ecumenici ufficiali, mentre nell’uso liturgico interno alle varie comunità ci si è attenuti ancora alle rispettive versioni tradizionali, con l’eccezione dell’espressione “dal maligno” con “dal Male” (con lettera maiuscola) che il sinodo valdese ha approvato nella parte liturgica del nuovo Innario Cristiano del 2000.
La versione ortodossa, che condivide con i protestanti la dossologia finale del Padre nostrocome parte integrante della preghiera (con una propria variante) ha una traduzione diversa nel versetto sulla tentazione: «non permettere che siamo indotti in tentazione». Di fatto cattolici, protestanti e ortodossi di lingua italiana hanno ognuno una versione differente del Padre nostroa cui si aggiunge quella ecumenica che, praticamene nessuno usa; ma questo vale anche per le altre aree geografiche linguistiche.
Esiste già una proposta della CEI dal 2007 per cambiare «non indurci in tentazione» in «non abbandonarci alla tentazione», recepita nella nuova traduzione della Bibbia CEI e nel Lezionario, e in vigore da pochi giorni nell’uso liturgico nel Messale.
Versione cattolica |
Versione ortodossa |
Versione evangelica |
Versione ecumenica |
Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Amen. |
Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane soprasostanziale e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori e non permettere che siamo indotti in tentazione; ma liberaci dal maligno. Poiché tuo è il regno, la potenza e la gloria, Padre, Figlio e Spirito Santo, ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen. |
Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo anche in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori e non esporciallatentazione, ma liberaci dal Male. Tuo è il Regno, la potenza e la gloria nei secoli dei secoli. Amen. |
Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà come in cielo anche in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori e non indurci in tentazione, ma
liberaci dal Male. Tuo è il Regno, la potenza e la gloria nei secoli dei secoli. Amen. |
Come si può facilmente constatare dalle diverse versioni del Padre nostronelle diverse chiese, il linguaggio religioso media tra la cultura e l’esperienza dell’individuo dandogli punti di riferimento e significati ben precisi. Tutto ciò che è umano è psichico, ma allo stesso tempo nulla nell’umano è soltanto psichico. Tutto ciò che è umano è elaborato dalla nostra psiche: pensare, parlare, amare, pregare, ecc. Anche la riflessione teologica risente di questo ed è, pertanto, un percorso umano compiuto con onestà intellettuale, per cui è necessario evitare il rischio di rendere tutto facilmente accettabile, come fosse anche facilmente comprensibile. È ovvio che anche gli argomenti più complessi debbano essere esposti possibilmente in modo facilmente comprensibile, ma senza cedere alla tentazione di forzare o, peggio, di banalizzare le argomentazioni, dando per acquisito e riproducendo acriticamente i dati tradizionali della fede.
È sintomo di disonestà intellettuale sorvolare sui concetti e sulle parole che esprimono argomenti di fede, cedendo agli automatismi e alle scorciatoie pur di sottrarsi e di sottrarre i credenti e i non credenti al rischio di mettere o rimettere in discussione le proprie opinioni. Nel libro del Siracide si legge: «Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla lentezza» (2,1). Con questo atteggiamento ci sforzeremo d’intraprendere alcune riflessioni sulla preghiera conosciuta, amata e recitata da tutti i cristiani, consapevoli di toccare corde sensibili della devozione e della fede.
È illuminante quella pagina di Dostoevskij ne I Fratelli Karamazov, che narra del ritorno di Gesù al tempo dell’Inquisizione in Spagna. Dopo essere stato riconosciuto dalla folla per i miracoli che compie, ecco che il Grande inquisitore, dopo che Gesù sul sagrato della cattedrale di Siviglia ripete il miracolo della resurrezione di una ragazzina, lo fa arrestare e gli dice: «Tu non puoi fare altro; quello che tu dovevi fare è stato già fatto; quello che tu dovevi dire è stato già detto… Adesso siamo noi che manteniamo quello che hai detto. Non puoi venire di nuovo a fare miracoli, non puoi venire di nuovo a far risuscitare le persone, ormai esiste un ordine e anche tu sei parte di quest’ordine».
Noi non possiamo incastrare Dio nella comprensione che ci siamo fatta su chi e su come è Dio! Non possiamo pretendere di insegnargli come si fa ad essere Dio. La fede è un cammino che dura tutta la vita, è un viaggio di cui non si conosce in partenza la meta finale, ma che si fa sempre più chiara man mano che si procede. Il credente, soprattutto se teologo, è come il marinaio: la chiamata a riprendere il largo è più forte dell’invito a restare ancorati al sicuro nel porto.
Con questo atteggiamento ci accingiamo a riflettere sulla preghiera più conosciuta, più amata e più intoccabile che si recita in tutte le comunità cristiane. A volte, però, abbiamo bisogno di parole nuove nella nostra preghiera, non per alterare le straordinarie preghiere che abbiamo ereditato dalla tradizione della Chiesa di Gesù Cristo nella sua globalità, ma per dare senso ad esse oggi come allora. Sono necessarie, a volte, parole che esprimano anche oggi il rapporto con Dio nel linguaggio attuale.
Il contesto del Padre nostro nei Vangeli
Il Padre nostroè attestato da due versioni evangeliche, Matteo (6,9-13) e Luca (11,2-4). Esse paiono derivare da una fonte comune (detta “Q”, iniziale del vocabolo tedesco Quelle= fonte)[1]mentre è assente in Marco, l’altra fonte principale di Matteo e Luca. Oltre alle consistenti, ma non sostanziali variazioni del Padre nostropresenti in questi due libri neo-testamentari, va sottolineato che esse sono inserite in contesti narrativi del tutto diversi. La “Q”, infatti, non offre narrazioni (neppure sulla morte e la resurrezione), ma solo dei detti di Gesù, presentati senza il preciso contesto storico in cui sarebbero state pronunciate.
La versione matteana del Padre nostro, che è quella ben presto adottata dalla tradizione per la liturgia ed è entrata nella devozione, fa parte del Discorso della montagna(capp. 5-7), dopo le beatitudini(5,1-12), la dichiarazione programmatica del proprio rapporto con le Scritture ebraiche e la presa di posizione sulla religiosità ebraica. In questa parte del discorso (cfr. 6,1-18) Matteo presenta l’insegnamento di Gesù su tre ambiti centrali nella vita spirituale dell’ebraismo: la misericordia, la preghiera e il digiuno. Nelle parole di Gesù si delineano alcune peculiarità: come si debba cioè vivere la misericordia, la preghiera e il digiuno all’interno di un percorso di spiritualità che si distacchi dal rigido legalismo dei precetti ebraici, seguendone lo spirito e non la lettera. All’interno dell’insegnamento sulla preghiera si situa il Padre nostrocol quale Gesù stesso insegna non tanto una concreta formula di preghiera, ma come va orientato l’atteggiamento della preghiera stessa al di fuori del formalismo liturgico.
Il Vangelo secondo Matteo è pensato per una comunità formatasi da alcuni decenni, ma bisognosa di insegnamenti che da un lato non la facciano ripiombare nel legalismo religioso (per i membri venuti dal giudaismo, la maggioranza) e, dall’altro lato (per i discepoli provenienti dal “paganesimo”), a lasciare la mentalità greco-ellenista di ritenersi graditi a Dio e da Lui esauditi grazie al solo formalismo delle parole usate (6,7-8) del devoto-servo.
Il contesto ampio entro il quale si viene invece a trovare il Padre nostronel Vangelo secondo Luca è quello del “racconto del viaggio” di Gesù verso Gerusalemme (9,51-19,27), durante il quale il testo sottolinea l’importanza dell’ascolto della “parola di Gesù”, lodato dal Signore stesso nel dialogo con Marta e Maria (10,38-42). In Lc 11,1 il Padre nostroè la risposta di Gesù alla richiesta di insegnare ai discepoli a pregare. Anche qui, Gesù non insegna il Padre nostro, insegna a pregare!
2.3. Confronto tra le due versioni
In uno studio sul Padre nostro, non ci si può esimere dal confronto tra le due versioni. Nelle pagine successive saranno trascritte in corsivo termini ed espressioni che si riscontrano in Matteo e che mancano o sono diversi in Luca, all’interno di una tabella che le pone affiancate. Presentando il confronto tra le due versioni (in italiano e in greco) va detto anzitutto che ha senso sottolineare particolarmente le differenze più importanti tra le due versioni, tralasciando le inversioni nell’ordine delle parole o le variazioni dei tempi verbali non immediatamente rilevabili in italiano, cui comunque accenneremo[2].
Rilevante potrebbe essere il versetto in cui si chiede a Dio di perdonare i peccati, in cui la differenza tra le due versioni risulta molto più accentuata in italiano di quanto non sia nell’originale greco. Infatti l’unica differenza riguarderebbe lo scambio tra i termini hamartìas (ἁμαρτίαϛ, peccati) in Luca e opheilémata (ὀφειλὴματα, debiti) in Matteo. Tutti gli altri cambiamenti presenti nella versione italiana sono indotti da quest’unica diversità. Nello studio degli antichi manoscritti sono evidenti notevolissimi tentativi di armonizzazioni tra i due testi, nel tentativo d’integrare nel testo lucano, che è molto più breve, le espressioni di Matteo che mancano in Luca[3].
(Lc 11,2b-4) |
(Mt 6,9b-13) |
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2b |
Πάτερ, Padre, ἁγιασθήτω τὸ ὄνομά σου· sia santificato il tuo nome, ἐλθάτω ἡ βασιλεία σου· venga il tuo regno; |
9b 10 |
Πάτερ ἡμῶν ὁ ἐν τοῖς οὐρανοῖς· Padre nostroche sei nei cieli, ἁγιασθήτω τὸ ὄνομά σου· sia santificato il tuo nome; ἐλθάτω ἡ βασιλεία σου· venga il tuo regno; γενηθήτω τὸ θέλημά σου, sia fatta la tua volontà ὡς ἐν οὐρανῷ καὶ ἐπὶ γῆς· come in cielo così in terra |
3 |
τὸν ἄρτον ἡμῶν τὸν ἐπιούσιον il nostro pane quotidiano δίδου ἡμῖν τὸ καθ’ ἡμέραν· da’ a noi giorno per giorno |
11 |
τὸν ἄρτον ἡμῶν τὸν ἐπιούσιον il nostro pane quotidiano δὸς ἡμῖν σήμερον· dacci oggi. |
4 |
καὶ ἄφες ἡμῖν τὰς ἁμαρτίας ἡμῶν, e perdonaci i nostri peccati, καὶ γὰρ αὐτοὶ ἀφίομεν παντὶ ὀφείλοντι ἡμῖν· e infatti noi stessi li rimettiamo ad ogni nostro debitore, |
12 |
καὶ ἄφες ἡμῖν τὰ ὀφειλήματαἡμῶν, rimetti a noi i nostri debiti ὡς καὶ ἡμεῖς ἀφήκαμεν τοῖς ὀφειλέταις ἡμῶν· come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori |
καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν. e non ci fare entrare in tentazione. |
13 |
καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν, e non ci fare entrare in tentazione. ἀλλὰ ῥῦσαι ἡμᾶς ἀπὸ τοῦ πονηροῦ. ma liberaci dal maligno |
Contesto originario
Gli esegeti ritengono quasi all’unanimità che il Padre nostrorisalga a Gesù, che lo insegnò dunque ai discepoli in aramaico, dato che questa persuasione rientra nei criteri che gli esegeti applicano per l’individuazione nei Vangeli delle autentiche parole di Gesù, i cosiddetti ipsissima verba Iesu.Tale concetto lo si riscontra già nei più antichi testi patristici[4]. Sembra anche del tutto plausibile che la diversità delle due versioni riportate in greco da Luca e da Matteo, che esprimono gli stessi concetti, non provenga da interventi personali dei due evangelisti, ma da un dato più semplice: essi hanno riportato due forme della stessa preghiera in uso presso le proprie comunità e pertanto a loro preesistenti.
Riguardo ai contenuti, si ritiene che sia la versione lucana più breve quella più vicina all’originale da far risalire allo stesso Gesù, mentre la versione di Matteo mantiene l’impronta del linguaggio aramaico dell’originale, come cercheremo di analizzare, confrontando il suo testo con la tradizione liturgica e devozionale ebraica.
In base alla formulazione matteana, infatti, è indubbio che il Padre nostroderivi direttamente dalla devozione e dalla preghiera dell’ebraismo[5]. Infatti, l’uso del plurale “Padre nostro” è abituale nella preghiera ebraica che si formula generalmente in nome dell’assemblea dei fedeli. Il Talmudspiega quest’abitudine di preghiera collettiva:
«Abbai dice: “L’uomo deve associare nella sua preghiera tutta la comunità, e dirà per esempio: sia fatta la tua volontà, Signore nostro Dio, di dirigere noi tutti verso la pace”»[6].
Come vedremo, commentando le singole parti, sono innegabili affinità tra il Padre nostro e la preghiera ebraica del Kaddish[7]che nella parte iniziale recita:
«Sia magnificato e santificato il Suo grande nome,
nel mondo cheEgli ha creato conforme alla Sua volontà,
venga il Suo Regno durantela vostra vita,
la vostra esistenza e quella di tutto il popolo d’Israele,
presto e nel più breve tempo».
Si tratta di una delle poche preghiere aramaiche arrivate fino a noi, perché essa era recitata alla fine del servizio sinagogale come risposta al sermone, che era in aramaico. Il Qaddish è una preghiera di contenuto escatologico del tutto coerente all’attesa del regno messianico[8].
La struttura
La struttura delle due versioni è sostanzialmente identica, lineare e facilmente definibile. All’invocazione iniziale “Padre” (più articolata in Matteo) seguono due sezioni di richieste: la prima ha per oggetto Dio (evidenziate dal «tuo/tua»), nella seconda invece l’orante è inserito in un contesto comunitario (come facilmente si evince dall’uso dei pronomi «nostro/nostri»).
Abbiamo già accennato che la versione di Matteo è più lunga. Ha, infatti, tre richieste nella prima serie, concluse con “come in cielo così in terra”, mentre il testo lucano ne ha solo due (manca la richiesta sulla “volontà” di Dio e la dossologia finale “poiché tuo è il regno…”).
Luca |
richieste |
Matteo |
|
sia santificato il tuo nome, |
1 |
1 |
sia santificato il tuo nome; |
venga il tuo regno; |
2 |
2 |
venga il tuo regno; |
3 |
sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra |
La seconda serie lucana ha tre richieste, che sostanzialmente sono uguali a quelle di Matteo, mentre quest’ultima continua l’ultima richiesta (“ma liberaci...”), che potrebbe essere intesa o come una settima richiesta oppure una chiarificazione della sesta.
Luca |
richieste |
Matteo |
|
Dacci oggi il nostro pane quotidiano |
3 |
4 |
Dacci oggi il nostro pane quotidiano |
e perdonaci i nostri peccati, come noi li rimettiamo ad ogni nostro debitore, |
4 |
5 |
Rimetti a noi i nostri debiti perché anche noi rimettiamo ai nostri debitori |
e non ci fare entrare nella tentazione. |
5 |
6 |
E non ci fare entrare nella tentazione |
7 |
ma liberaci dal maligno |
È probabile che alla recita di questa preghiera, una volta entrata nell’uso liturgico, si aggiungesse una dossologia di chiusura secondo l’uso liturgico della sinagoga. La tradizione manoscritta riporta infatti diverse chiuse, la più famosa delle quali è tratta da 1Cr 29,11-13: «tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli(Amen)». Nonostante questa variante sia un’aggiunta posteriore[9], essa, grazie al favore che fino al secolo scorso ebbe il textus receptus[10]nel mondo anglosassone e tedesco che la riporta, viene aggiunto ancor oggi dai protestanti nella recita del Padre nostro.
La Chiesa cattolica di rito latino lo ha mantenuto nella Messa dopo il Padre nostro, come risposta del popolo alla preghiera del celebrante “Liberaci, o Signore”. Gli ortodossi mantengono la dossologia nella formula “Poiché tuo è il regno, la potenza e la gloria, Padre, Figlio e Spirito Santo, ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen” (mentre gli ortodossi invece che “liberaci dal male” hanno mantenuto “liberaci dal maligno”).
Problemi di traduzione e piste di riflessione
Dopo le dovute premesse, passiamo dedicarci a quelle espressioni che nel Padre nostrosono variamente discusse. Considereremo come base il testo matteano, perché, come abbiamo già detto in precedenza, è quello che si è imposto nell’uso liturgico e devozionale.
Premettiamo che una buona traduzione debba possedere almeno due caratteristiche: fedeltà al testo greco e comprensibilità. Soprattutto a motivo del suo uso liturgico, sarebbe bene poi che un’eventuale nuova traduzione del Padre nostroavesse come terzo requisito una certa forma estetica, fruibile per la recita corale e tale da agevolare la memorizzazione. Auspicabile sarebbe una formulazione unica accolta e usata da tutte le chiese cristiane.
Per il Padre nostronon è facile ottemperare alle prime due caratteristiche di una buona traduzione. Si può salvaguardare la fedeltà solo se si è capito perfettamente che cosa l’originale intenda esprimere. Pur ritenendosi certi di aver ben capito l’originale greco, però, non è detto che la traduzione sia totalmente esente da sottintesi o sfumature concettuali e cultuali che le lingue diverse dall’originale greco non riescono a riportare nel testo tradotto. Entrambe le difficoltà mi pare siano presenti nelle traduzioni italiane attualmente in uso.
Le chiese ortodosse hanno ovviato alle difficoltà che l’orante può incontrare nel Padre nostrooffrendo accanto ad esso una tra le preghiere più conosciute ed entrate nell’uso liturgico quotidiano e nella devozione. Tale preghiera riprende le stesse richieste dal Padre nostro: è l’invocazione allo Spirito Santo che introduce le preghiere delle ore.
Re celeste Paraclito, |
Βασιλεῦ οὐράνιε, Παράκλητε, τὸ Πνεῦμα τῆς ἀληθείας, ὁ πάνταχοῦ παρών, καὶ πάντα πληρῶν, ὁ θησαυρὸς τῶν ἀγαθῶν, καὶ ζωῆς χορηγός, ἐλθὲ καὶ σκήνωσον ἐν ἡμῖν, καὶ καθάρισον ἡμᾶς ὰπὸ πάσκης κηλῖδος, καὶ σῶσον, Ἀγαθέ, τὰς ψυχὰς ἡμῶν. |
Esaminiamo adesso le varie parti delle due versioni del Padre nostro.
(a) “Padre nostro che sei nei cieli”
Luca |
Matteo |
Πάτερ, Padre, |
Πάτερ ἡμῶν ὁ ἐν τοῖς οὐρανοῖς· Padre nostro che sei nei cieli, |
La domanda radicale che riguarda la nostra riflessione sull’invocazione introduttiva del Padre nostroè la seguente: quando l’uomo dice “dio” o quando dice “padre” a chi non è il proprio padre biologico o quando dice “Dio Padre” che cosa e chi esprime con questo linguaggio simbolico? Queste parole non risuonano nello stesso modo in chi le pronuncia perché ognuno a tali parole attribuisce sfumature e significati che provengono dalla cultura, dalla famiglia e dalle esperienze personali che passano e si evolvono nella sua psiche.
Indipendentemente dal significato mediato ed evolutosi nelle singole culture e nei singoli individui, la prima parola di questa preghiera (Padre) fa da direzione nel cammino indicato dal Nazareno evangelico per comprendere Dio. Per cui il “Figlio di Dio” è la meta a cui giungere nel cammino della “santificazione” o, come meglio si esprimono le chiese ortodosse, la deificazione. Si legge infatti nella lettera agli Efesini:
«12Così egli prepara il popolo di Dio per il servizio che deve compiere. E così si costruisce il corpo di Cristo, 13fino a quando tutti assieme arriveremo all'unità, con la stessa fede e con la stessa conoscenza del Figlio di Dio; finché saremo giunti alla perfezione, a misura dell'infinita grandezza di Cristo che riempie l'universo. 14Non saremo allora più come bambini messi in agitazione da ogni nuova idea, portati qua e là come dal vento. Gli uomini che agiscono con inganno e con astuzia non potranno più farci cadere nell'errore». (4,12-14)[11]
Il Cristo ci inviterebbe nella preghiera a vivere Dio come Egli stesso lo viveva e ad avere di Lui la visione chiara di “Sorgente” della vita, come il seme di un padre biologico lo è per ogni essere umano.
«Noi siamo sicuri di questo: Dio fa tendere ogni cosa al bene di quelli che lo amano, perché li ha chiamati in base al suo progetto di salvezza. Da sempre li ha conosciuti e amati, e da sempre li ha destinati a essere simili al Figlio suo, così che il Figlio sia il primogenito fra molti fratelli. Ora, Dio che da sempre aveva preso per loro questa decisione, li ha anche chiamati, li ha accolti come suoi, e li ha fatti partecipare alla sua gloria» (Rm 8,28-30).
Il Padre nostroinvita e insegna a chiamare Dio “Padre” come Cristo Lo chiamava e ad esserne i figli come Cristo lo era.
L’aggiunta in Matteo “che sei nei cieli” (oltre a “nostro”) deriva dalla concezione che la teologia ebraica ha di Dio ed espressa nei testi dell’Antico Testamento e nei testi rabbinici. L’espressione è, infatti, tipicamente ebraica e “cieli” è la traduzione letterale dell’ebraico “shamâim” (שמים) una delle parole in forma plurale con significato singolare nella lingua ebraica. È la forma del superlativo indefinito che esprime concetti indefinibili e “cose” che sono ovunque come Dio (elohim = אלהים), vita (khaim = חים), cielo (shamaim = שמים), acqua ((מים.
Il cristianesimo di lingua greca avrebbe potuto tradurre «Padre nostro che sei in cielo»: perché ha mantenuto la forma plurale? È vero che l’espressione indica la concezione cosmologica dell’universo che avevano gli antichi, suddividendo il cielo in sette ordini in cui risiedevano gerarchicamente le potenze celesti. Il cielo comunque indica essenzialmente la totale trascendenza divina, la totale separazione ontologica tra Dio e gli esseri umani.
È anche vero però che vi sono diversi cieli. Alessandro Manzoni ne’ I Promessi Sposi scrive “il bel cielo di Lombardia, quando è bello…”, così come conosciamo da un film Il Cielo di Berlinoo la canzone Il Cielo di Napoli. Tutte queste espressioni indicano la particolare cultura di un’area geografica. Vi sono però anche espressioni quali “il cielo terso”, “il cielo stellato”, “il cielo burrascoso”, ecc. che indicano i vari momenti astronomici e meteorologici. Perché allora non considerare “Padre nostro che sei nei cieli” nel significato della presenza divina in tutti i momenti della nostra esistenza e in tutte le espressioni culturali dell’umanità. Dio è Padre di tutti e in tutti i momenti della vita, sia nei momenti gioiosi che in quelli burrascosi, sia nei momenti splendidi che in quelli bui.
Quando nell’ebraismo si afferma che YHWH[12]“abita i cieli” o espressioni simili intende esprimere l’assoluta trascendenza divina e vuole evitare qualsiasi antropomorfismo e la tentazione di cadere nell’idolatria rendendo il Dio dei padri quasi umano, come nelle religioni antiche circostanti. Il ricordo, in Mt 6,9b, di questa trascendenza divina a completamento dell’’invocazione “Padre” serve a portare alla coscienza quanto inaudita sia tale “confidenza”, comunque già presente nell’ebraismo, ma insegnata e portata fino alle estreme conseguenze da Gesù[13].
Il senso della prima frase del Padre nostro sarebbe dunque “O Dio, infinitamente superiore (trascendente), che hai voluto essere nostro padre amorevole…”. È purtroppo senz’altro possibile che nella modernità si è portati a fraintendere o ridicolizzare l’espressione “che sei nei cieli” (che non riguarda lo spazio ma una dimensione altra),[14]anche se non ci pare semplice sostituirla con un’altra espressione che, senza perdere il suo spessore poetico, ne esprima i contenuti essenziali in forma corretta ma rispondente alle esigenze contemporanee. Sostituendo “Padre nostro che sei nei cieli” ad esempio con “Paterno Dio di ogni essere umano, fonte amorevole di ogni vita nel cosmo intero” non si tradirebbe il significato del testo, lo rende più chiaro e teologicamente corretto, ma non sarebbe una traduzione dal testo greco.
Per il cristianesimo, il Dio “che è nei cieli” è stato comunicato e tradotto in linguaggio umano attraverso le parole, i gesti e l’intera vita di Gesù di Nazareth, che ce ne ha parlato all’interno di un contesto d’amore familiare dove Dio è il padre... il papà: la sicurezza, la forza nascosta. Non le sue parole, ma il Cristo stesso è la parola, la comunicazione rivoltaci per esprimere un barlume di Dio!
Dobbiamo però riconoscere che abbiamo fatto di Gesù, e del “Padre” di cui ci ha parlato, qualcosa di esclusivo del cristianesimo, un possesso dei cristiani, quasi un passaporto riservato per il paradiso. Siamo come un figlio che agli altri suoi fratelli e alle sue sorelle dice che il papà è solo suo! Il “nostro” di questa preghiera non può intendere solo i cristiani, ma l’umanità intera.
Già il profeta Amos, nell’Antico Testamento richiamava Israele che si riteneva il popolo prediletto e declamava l’oracolo divino in cui Dio stesso si proclamava padre e protettore di tutti i popoli, perfino dei nemici dello stesso Israele:
«Israeliti, - dice il Signore, - voi siete per me come qualsiasi altro popolo, anche lontano. Ho fatto uscire voi dall’Egitto, i Filistei da Creta, gli Aramei da Kir» (Am 9,7).
Il Gesù dei vangeli è anche maestro di umanità. Non ha a cuore solo i suoi discepoli o il suo popolo. Guarisce il figlio del centurione romano e la figlia della siro-fenicia (due cosiddetti “pagani”), e ha a cuore non solo le pecore perdute d’Israele, ma anche quelle che non sono nel suo ovile (Gv 10, 16). Ogni essere umano è specchio del divino, immagine di Dio: tutto ciò che riguarda l’essere umano riguarda Dio. Le discepole e i discepoli di Cristo sono incoraggiati ad aprirsi anche a chi non può credere, a chi non riesce a credere, a chi non crede e a chi crede altro.
La dimensione universale della preghiera delPadre nostro nasce dalla considerazione che ogni donna e ogni uomo sono “figli”. Ogni essere umano ha una sua interiorità, è assetato d’infinito, ha bisogno di pane e di perdono, lotta contro il male, che – come ci ricorda la Scrittura – “come leone ruggente si aggira in cerca di chi divorare” (1Pietro 5,8).
Una poesia di Jacques Prévert intitolata Pater nosterrecita
Padre nostro che sei nei cieli
Restaci pure
Quanto a noi resteremo sulla terra…
Veramente Dio è in cielo e noi sulla terra? Veramente il cielo è la sua casa e la terra la nostra?... Ogni tanto lo invitiamo... Lui ricambia e andiamo avanti con questo scambio di cortesie? Jacques Prévert invece non lo invita né vuole essere invitato da questo Dio. Così come tanti in questo mondo: non gli sono nemici... non gli sono amici. Eppure Gesù è venuto a parlarci e a mostrarci proprio di questo strano rapporto che gli uomini, lungo il corso della nostra storia, abbiamo creato con Dio: un rapporto incompreso, malato, forzato, costruito... e quindi falso! Una delle frasi più enigmatiche e allo stesso tempo più illuminanti del Quarto Vangelo è la parola che Giovanni Battista rivolge ai suoi discepoli parlando di Gesù: «In mezzo a voi sta Colui il quale voi non conoscete!». In Gesù, Dio è l’inconoscibile che viene incontro all’umanità.
La parola chiave, infatti, per capire la preghiera, ma soprattutto la preghiera del Padre nostro, è “relazione”. Le parole non sono l’essenza della preghiera. L’essenza della preghiera è la relazione con Dio: è l’azione di Dio nella nostra vita, è la nostra apertura verso di “Lui”! Più aderente al significato del testo originario sarebbe forse per oggi l’espressione “Padre nostro che ovunque sei”.
(b) “Sia santificato il tuo nome”
Luca - Matteo |
ἁγιασθήτω τὸ ὄνομά σου· sia santificato il tuo nome, |
Questa è senza dubbio l’espressione più oscura dell’attuale testo italiano, benché l’originale sia del tutto chiaro per chi è addentro alla spiritualità ebraica. Nel linguaggio religioso contemporaneo si parla di santificare le feste, ma mai un nome. Ci si chiederà anche se non sia addirittura irriverente l’idea di “santificare” Dio, come se si potesse aggiungere qualcosa alla santità anche solo del nome di Dio. Più comprensibile risulterebbe oggi l’espressione “Sii glorificato”, oppure “onorato”. In realtà, occorre legare tale espressione all’invocazione seguente “venga il tuo regno”, siamo di fronte a parole non composte da Gesù, ma già ampiamente usate dalla devozione ebraica, ad esempio nella preghiera del kaddish.
Il richiamo a tale preghiera ebraica è la menzione che si fa in esso al regno futuro (che sarà ripreso nel verso seguente del Padre nostro), come il riconoscimento della maestà vittoriosa di Dio, che in analogia con i vincitori di questo mondo si esplicita anche nella lode verbale, nella prostrazione, nell’acclamazione del nome della persona a cui si vuole rendere onore. In altri testi si parla degli uomini, di solito dei soli israeliti e in maniera particolarissima dei martiri, che “santificano il nome di Dio”, intendendo dire che essi rispettano la sua volontà anche a costo della propria vita. Quanto al “nome”, già nell’Antico Tastamento tale termine ha una gamma semantica amplissima e quasi mai neutrale: riferito poi a Dio significa spesso la sua potenza[15]e la sua dignità. In non pochi testi biblici e giudaici infine (ad essi appartiene anche il nostro verso) il termine “il Nome” nella liturgia sinagogale (ha-scēmהַשֵם= “il Nome”) sta a indicare Dio stesso come uno dei tanti modi per evitare di pronunciare il tetragramma divino (יהוה= YHWH)[16]. La “santità” di Dio, di cui si parla spesso nell’Antico Testamento, è molto di più di un attributo morale. La santità qualifica in ultima analisi l’essere stesso di YHWH, separato e infinitamente superiore ad ogni altro esistente.
«Nell’anno in cui morì il re Ozia, ho visto il Signore. Stava seduto sul suo trono, molto in alto. E il suo mantello scendeva giù e riempiva il tempio. Attorno a lui stavano esseri simili al fuoco. Ognuno aveva sei ali: con due si copriva la faccia, con altre due, il corpo, e con due volava. Gridavano l’un l’altro: “Santo, santo, santo è il Signore dell’universo: la sua presenza gloriosa riempie il mondo”» (Is 6,1-3).
La prima richiesta del Padre nostroallora costituisce praticamente un doppione della seconda e si situa nei suoi confronti in un parallelismo delle parti di tipo sinonimico né differisce molto dalla terza. Il senso globale della frase in questione è dunque assai pregnante e difficilmente formulabile in poche parole. Potremmo sintetizzarlo così: “gli uomini facciano la tua volontà, anzi venga quel tempo, il tempo finale e definitivo, nel quale la tua santità sarà riconosciuta, rispettata e proclamata da tutti”.
Se consideriamo che il Nome di Dio è nel nome stesso di Gesù (YHWo-shua = יְהוֹשֻׁעַ), composto da YHWo/יהו, la prima sillaba nel tetragramma sacro YHWH = יהוהdel nome di Dio, e shua/שֻׁעַ(salva) dal verbo ish’a/ישע(salvare)[17], dal punto di vista cristiano ritengo si possa accettare l’espressione “Ti riconosciamo in Gesù il Cristo che porta il Tuo Nome”, che se non tradisce il significato del testo evangelic0 ne sarebbe comunque una forzatura, anche se l’espressione “che porta il Tuo nome” esprimerebbe il concetto di unione (figliolanza) tra il Creatore e il Cristo.
Conoscere il nome di una persona è conoscere la persona. Il problema con Dio è che è inconoscibile per Sua stessa essenza. Non potrebbe essere altrimenti. Se fosse conoscibile entrerebbe nella nostra razionalità: allora sarebbe un idolo, un dio conforme alle nostre categorie di razionalità. Nella Prima lettera di Giovanni leggiamo: «Dio nessuno l’ha mai visto. Però se ci amiamo gli uni gli altri, egli è presente in noi, e il suo amore è veramente perfetto in noi»(4,12). Con l’espressione “Dio nessuno l’ha mai visto”[18] questo scritto cristiano accoglie la tradizione ebraica che Dio si trova al di là di tutto ciò che potremmo dedurre su di “Lui”. La Sua essenza, il Suo “Nome”, sfugge ad ogni nostra definizione ed è sempre “Oltre” e sempre “Altro” rispetto alla nostra conoscenza. Gregorio di Nissa avverte che “i concetti creano gli idoli: solo lo stupore conosce”![19] Ma la preghiera del Padre nostro c’invita ugualmente a considerare e onorare la “santità”, la “altezza”, la trascendenza di questo “Padre”. Solo nella relazione interpersonale, nel “se ci amiamo gli uni gli altri” ci si può affacciare a un barlume della Sua essenza, alla quale il Cristo ha voluto aprire l’umanità.
La semplice espressione “sia santificato il Tuo Nome” invita l’orante ad arrendersi a “Qualcosa” d’inconoscibile, ma con la Quale si vuole ugualmente avere e accogliere una relazione tra due soggetti liberi di essere quello che entrambi sono.
Pregare dicendo “sia santificato il tuo nome” significa accogliere una relazione “al buio”, non una relazione virtuale come quelle ce si vanno creando oggi attraverso i social in cui le persone nascondono o alterano la propria identità, ma una relazione in cui chi prega non può conoscere la vera identità dell’Altro, ma l’altro conosce l’identità, la personalità e il cammino di chi prega.
Pregare dicendo “sia santificato il tuo nome” significa avere il coraggio di non chiudersi dentro di sé in una comoda tradizione di certezze, ma lasciarsi orientare dalla santità di Dio: una santità offerta a tutti, giorno per giorno, anche quando si è circondati da un mare di malvagità dove portare la santità di Questo sconosciuto.
Citando San Cipriano martire Sant’Agostino scriveva:
«Dunque fra questi meriti dei santi che nulla sono se non doni di Dio, egli sostiene che anche la perseveranza lo è con le parole seguenti: Noi diciamo: “Sia santificato il nome tuo”, non perché esprimiamo a Dio il desiderio che Egli sia santificato nelle nostre preghiere, ma perché gli chiediamo che il suo nome sia santificato in noi. D’altronde da chi potrebbe essere santificato Dio, se è lui che santifica? Ma poiché è lui che ha detto: “Siate santi, perché anch’io sono santo”[20], lo imploriamo e lo preghiamo affinché, come siamo stati santificati nel battesimo, perseveriamo in quello che abbiamo cominciato ad essere[21]. E poco dopo il martire, trattando ancora di questo stesso argomento e insegnandoci a chiedere al Signore la perseveranza, cosa che in nessun modo potrebbe fare rettamente e sinceramente se non fosse anche questo un dono di Dio, dice: Preghiamo perché questa santificazione permanga in noi; e poiché il Signore e giudice nostro ammonisce severamente chi è stato risanato e vivificato da lui a non cadere più in colpa perché non gli accada qualcosa di peggio[22], rivolgiamo questa supplica con continue preghiere, questo preghiamo di giorno e di notte, che la santificazione e la restituzione alla vita che si riceve dalla grazia di Dio sia conservata dalla sua protezione»[23].
Come scriveva Agostino: “La santificazione del nome di Dio è la nostra santificazione”. La santificazione del nome di Dio è un processo di santificazione o, come si esprime l’ortodossia, di deificazione che avviene nei credenti e che porta frutti di santità nella loro vita. Più aderente al significato del testo originario sarebbe l’espressione “sii santificato nella nostra vita” o “sii santificato in noi”.
(c) “Venga il tuo regno”
Luca - Matteo |
ἐλθάτω ἡ βασιλεία σου· venga il tuo Regno ; |
Questa invocazione sembra contraddire le parole del Gesù evangelico quando afferma: «Il regno di Dio è vicino» (Mc 1,15), «il regno di Dio è giunto fino a voi» (Lc 10,9.11; 11,20) o addirittura «Il regno di Dio è dentro di voi» (Lc 17,21). Su che cosa sia il regno di Dio si può certamente affermare che esso è inseparabile da Gesù, come Gesù è inseparabile dallo Spirito di Dio. Il regno di Dio si realizza in Cristo, nel Messia Gesù, come si legge nel Vangelo secondo Luca (cap. 4):
«Poi Gesù andò a Nazaret, il villaggio nel quale era cresciuto. Era sabato, il giorno del riposo. Come al solito Gesù entrò nella sinagoga e si alzò per fare la lettura della Bibbia. Gli diedero il libro del profeta Isaia ed egli, aprendolo, trovò questa profezia:“ Il Signore ha mandato il suo Spirito su di me. Egli mi ha scelto per portare il lieto messaggio ai poveri. Mi ha mandato per proclamare la liberazione ai prigionieri e il dono della vista ai ciechi, per liberare gli oppressi,per annunziare il tempo nel quale il Signore sarà favorevole”. Quando ebbe finito di leggere, Gesù chiuse il libro, lo restituì all’inserviente e si sedette. La gente che era nella sinagoga teneva gli occhi fissi su Gesù. Allora egli cominciò a dire:“Oggi per voi che mi ascoltate si realizza questa profezia”».
Dove giungeva Gesù giungeva il Regno. Se «non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20) accade oggi, il Regno di Dio giunge ancora oggi in mezzo al mondo, dentro la storia come seme dentro di noi. Ecco l’invocazione. Il Regno di Dio si realizza nel battezzato. La preghiera del Padre nostro ci aiuta e ci esorta a renderci sensibili alla presenza dello Spirito, di Cristo del Regno: una presenza in fermento che coinvolge nel cammino verso la sua pienezza. Dice il Cristo nel Vangelo: «Il regno di Dio è come la semente che un uomo sparge nella terra. Ogni sera egli va a dormire e ogni mattina si alza. Intanto il seme germoglia e cresce, ed egli non sa affatto come ciò avviene» (Mc 4,26-27). Santificazione, Regno e Volontà di Dio hanno a che fare con l’azione dello Spirito. Simon Weil commentando questa richiesta scrive:
«Si tratta per il momento presente di qualcosa che dovrà venire, qualcosa che ancora non c’è. Il regno di Dio è lo Spirito Santo che ricolma tutta l’anima delle creature intelligenti. Lo Spirito soffia dove vuole. Lo si può solo invocare. Ma non si pensi a invocarlo in modo particolare su di sé, oppure su un altro essere, o su tutti gli esseri; lo si invochi semplicemente; il pensare allo Spirito sia un appello e un grido. Allo stesso modo, quando siamo al limite della sete, quando siamo ammalati di sete, non ci si figuriamo più l’atto del bere in rapporto a noi stessi, e nemmeno l’atto del bere in generale. Ci figuriamo semplicemente l’acqua, l’acqua in se stessa, ma quell’immagine dell’acqua è come un grido di tutto l’essere»[24].
Lo Spirito Santo può adattare aspetti del Nazareno e della sua vita alla nostra misura individuale nel processo di trasformazione della nostra umanità verso la piena realizzazione dell’«uomo spirituale» (1Cor 2,15) che è nato col battesimo e cresce col credente. Nella tradizione spirituale ortodossa, il Cristo fornisce il modello, la forma, il progetto di questo essere umano nuovo, “spirituale”. Lo Spirito Santo invece fornisce la realizzazione, l’attuazione del modello, del progetto divino in noi, come l’edificazione di un edificio da un progetto su carta alla sua realizzazione sul “nostro” terreno personale nel luogo della nostra esistenza e nel tempo della nostra esistenza!
Tutto questo resterebbe lettera morta quando mancasse la tensione escatologica tipica del cristianesimo primitivo e del primitivo monachesimo. Come l’amore, la fede vive di desiderio.
(d)“Sia fatta la Tua volontà come in cielo così in terra”
Luca |
Matteo |
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γενηθήτω τὸ θέλημά σου, sia fatta la tua volontà ὡς ἐν οὐρανῷ καὶ ἐπὶ γῆς· come in cielo così in terra |
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Riguardo alla frase che conclude la prima parte della preghiera del Signore “come in cielo così in terra”, gli studiosi si chiedono se vada riferita alla sola ultima richiesta relativa alla volontà di Dio o piuttosto a tutte e tre le petizioni che precedono. In genere si propende per quest’ultima scelta, perché la frase in questione si adatterebbe senz’altro alla prima sulla santificazione del Nome, ma non alla seconda richiesta, quella relativa alla venuta del Regno. Sia l’una che l’altra interpretazione, comunque, non crea problemi di traduzione né si migliora il significato del testo escludendo un senso o l’altro.
La volontà di Dio, ovviamente, non si compie se qualcuno non la compie... se noi non la compiamo. È il cammino concreto della fede nel mondo di tutti i giorni in cui la libertà, la nostra volontà e le nostre scelte vengono messe in discussione dall’avere accolto Cristo in noi, nella nostra vita. Dopo la prima creazione narrata in Genesi e la seconda con la venuta del Cristo, ecco che la terza creazione accade col cammino terreno del popolo di Cristo. Con lo Spirito Santo che agisce nei credenti viviamo una nuova creazione in atto in una evoluzione ancora incompleta che ha come meta l’umanità e il cosmo miticamente e poeticamente espressi in Isaia 11, quando si parla dei tempi messianici che sono sempre in divenire:
«Lupi e agnelli vivranno insieme e in pace,
i leopardi si sdraieranno
accanto ai capretti.
Vitelli e leoncelli mangeranno insieme,
basterà un bambino a guidarli.
7Mucche e orsi pascoleranno insieme;
i loro piccoli si sdraieranno
gli uni accanto agli altri,
i leoni mangeranno fieno come i buoi.
8I lattanti giocheranno presso nidi
di serpenti,
e se un bambino metterà la mano
nella tana di una vipera
non correrà alcun pericolo.
9Nessuno farà azioni malvagie o ingiuste
su tutto il monte santo del Signore.
Come l’acqua riempie il mare,
così la conoscenza del Signore
riempirà tutta la terra».
Dio apre porte nuove all’umanità grazie anche all’impegno delle discepole e dei discepoli di Cristo che volendo compiere la volontà di Dio abbracciano il Suo impegno per l’umanità solidale, armoniosa con il creato e pacifica. Come scrive Paolo tutto il cosmo è proteso verso la rivelazione dei figli di Dio: «Tutto l’universo aspetta con grande impazienza il momento in cui Dio mostrerà il vero volto dei suoi figli» (Rm 8,19). La volontà di Dio è l’amore, il grande comandamento che il Cristo ha lasciato ai suoi e espresso in modo mirabile nella Prima lettera si Corinzi (cap. 13):
«Se parlo le lingue degli uomini e anche quelle degli angeli,
ma non ho amore, sono un metallo che rimbomba,
uno strumento che suona a vuoto.
Se ho il dono d’essere profeta e di conoscere tutti i misteri,
se possiedo tutta la scienza e ho tanta fede da smuovere i monti,
ma non ho amore, io non sono niente.
Se do ai poveri tutti i miei averi, se offro il mio corpo alle fiamme,
ma non ho amore, non mi serve a nulla.
Chi ama è paziente e generoso.
Chi ama non è invidioso non si vanta
non si gonfia di orgoglio.
Chi ama è rispettoso non cerca il proprio interesse
non cede alla collera, dimentica i torti.
Chi ama non gode dell’ingiustizia, la verità è la sua gioia.
Chi ama è sempre comprensivo, sempre fiducioso,
sempre paziente, sempre aperto alla speranza.
L’amore non tramonta mai: cesserà il dono delle lingue,
la profezia passerà, finirà il dono della scienza.
La scienza è imperfetta, la profezia è limitata,
ma quando verrà ciò che è perfetto, esse svaniranno.
Quando ero bambino parlavo da bambino,
come un bambino pensavo e ragionavo.
Da quando sono un uomo ho smesso di agire così.
Ora la nostra visione è confusa, come in un antico specchio;
ma un giorno saremo a faccia a faccia dinanzi a Dio.
Ora lo conosco solo in parte,
ma un giorno lo conoscerò pienamente come lui conosce me.
Ora dunque ci sono tre cose che non svaniranno:
fede, speranza, amore.
Ma più grande di tutte è l’amore».
(e) “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”
Luca |
Matteo |
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τὸν ἄρτον ἡμῶν τὸν ἐπιούσιον il nostro pane quotidiano δίδου ἡμῖν τὸ καθ’ ἡμέραν· daccelo giorno per giorno |
τὸν ἄρτον ἡμῶν τὸν ἐπιούσιον il nostro pane quotidiano δὸς ἡμῖν σήμερον· dacci oggi. |
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Il significato del termine greco tradotto con “quotidiano” epiùsios(ἐπιoύσιoς) costituisce una vera e propria difficoltà interpretativa, già fin dai primi scrittori cristiani. Nel Nuovo Testamento questo termine è usato solo nelle varianti del Padre nostrocontenute in Matteo e Luca, maera rarissimo già nella grecità precristiana[25]. La sua etimologia non trova consenso tra gli studiosi è tra quelli antichi né tra i moderni.
Molti esegeti contemporanei ritengono più probabile la traduzione “per il domani”, con varie interpretazioni. Tale scelta andrebbe fatta risalire innanzitutto a Gerolamo che, nel suo commento a Mt 6,11 afferma di aver trovato nel Vangelo degli ebrei (o dei nazareni)[26], per epiùsios(quotidiano), l’aramaico «ma’ar, quod dicitur crastinum», (che significa “di domani”). Il significato sarebbe allora: “il pane di domani, daccelo già oggi”, come commenta Gerolamo («ut sit sensus: panem nostrum crastinum, id est futurum, da nobis hodie» [27] ). Una richiesta del genere è verosimile se pronunziata da un lavoratore a giornata della Galilea, che non sapeva se domani poteva guadagnare il pane per la sua famiglia. Si adatterebbe meno, però, al contesto lucano, che ha “ogni giorno” invece di “oggi” e conseguentemente un imperativo presente di senso iterativo (δίδoυ) al posto di un aoristo (δός). Non avendo, comunque, nella lingua italiana un aggettivo come il latino crastinuso il tedesco morgige data la indeterminatezza del termine “quotidiano”, si può lasciare il testo in uso, ma forse si potrebbe adottare un’espressione tipo «dacci il pane per [continuare a] vivere»[28].
Il pane non è solo pane, non è semplicemente farina, acqua, sale e lievito: è il simbolo dell’essenzialità della vita, simbolo di ciò da cui dipende la nostra sopravvivenza. È simbolo di condivisione, di famiglia, di fraternità e da cui derivano diversi termini come compagno, compagnia, accompagnare, ecc. (cum-panis), per indicare colui col quale si condivide lo stesso pane. Questi termini non indicano la condivisione di un alimento, ma la condivisione della vita. Il pane è simbolo anche del lavoro: guadagnare il pane. Per l’ortodossia si tratta del pane eucaristico (e sostituiscono “quotidiano” con il termine teologico “soprasostanziale”).
Il Padre nostroinvita a chiedere l’essenziale, semplicemente l’indispensabile perché la vita umana sia tale: chiedere il cuore della vita. Allo stesso tempo invita a riflettere se sappiamo cosa sia veramente essenziale per noi, se sapremmo vivere come un pellegrino giorno per giorno. Maggiore è il numero delle cose che riteniamo indispensabili, più ne siamo prigionieri. Sappiamo vivere senza Cristo? In Simone Weil il pane è Cristo e il pane di questa richiesta è considerato soprannaturale proprio in quanto il nutrimento che dobbiamo desiderare e dobbiamo chiedere è fonte di un’energia che non è prodotta dal successo, dal denaro, dalla celebrità o dal potere. Ciò a cui bisogna aspirare è un’energia la cui sorgente è in cielo, è in Dio[29].
(f) “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”
Luca |
Matteo |
καὶ ἄφες ἡμῖν τὰς ἁμαρτίας ἡμῶν, e perdonaci i nostri peccati, |
καὶ ἄφες ἡμῖν τὰ ὀφειλήματα ἡμῶν, rimetti a noi i nostri debiti |
καὶ γὰρ αὐτοὶ ἀφίομεν παντὶ ὀφείλοντι ἡμῖν· come noi li rimettiamo ad ogni nostro debitore, |
ὡς καὶ ἡμεῖς ἀφήκαμεν τοῖς ὀφειλέταιςἡμῶν· perché anche noi rimettiamo ai nostri debitori |
Questo è un ulteriore caso in cui il senso è chiaro nell’originale in Matteo, ma potrebbe prestarsi a qualche malinteso nella traduzione italiana. Matteo usa qui una metafora aramaica per “peccato”, quella del “debito” (aram. hobā’- חובא), che è molto usata nella letteratura rabbinica. I peccati sarebbero dei “debiti” non estinguibili da parte dell’essere umano (cfr. la parabola dei due servitori Mt 18,23-35) mentre Luca, costantemente cerca di mediare per il lettore ellenista e interviene sostituendo a “debiti” il termine “peccati”, ma lasciando tutte le altre espressioni di tipo economico.
È questo l’unico punto in cui la traduzione latina (dimittimus) e di conseguenza quella italiana tradizionale (rimettiamo) seguono il testo lucano e non quello di Matteo. Infatti, mentre Matteo ha l’aoristoafékamen(ἀφήκαμεν, “abbiamo rimesso o perdonato”), Luca ha il presente afìomen(ἀφίομεν“rimettiamo o perdoniamo”)[30]. Le difficoltà sollevate soprattutto da esegeti protestanti non nascono né da problemi linguistici intrinseci del testo né dallo scopo di adattare il testo a una maggiore comprensibilità per lettori o gli oranti contemporanei, ma da motivi teologici. È teologicamente inammissibile, infatti, che il perdono umano preceda o addirittura sia modello (“così come noi...”) di quello divino, come fosse un baratto per dire “perdonaci dato che noi abbiamo perdonato” o “perdonaci come noi abbiamoperdonato”[31].
Questa richiesta è il cuore di tutto il Padre nostro. Anche in questo caso ci pare che l’attuale testo italiano possa essere conservato, data la sua indeterminatezza, rimandando alla catechesi la spiegazione del delicato problema dei rapporti causali tra il perdono divino dei nostri peccati e quello umano delle offese ricevute. La precedenza temporale del nostro perdono ai nostri debitori va certamente intesa come condizione del cammino cristiano e non come esempio o addirittura causa di quello divino[32]. È e rimane Dio la fonte del perdono e il Cristo ne è il maestro.
Su questo punto Simon Weil scrive:
«Al momento di dire queste parole dobbiamo aver già rimesso tutti i nostri debiti. Non si tratta soltanto delle offese che pensiamo di aver subito. È anche la rinuncia alla riconoscenza per il bene che pensiamo di aver fatto, e in genere a tutto ciò che ci attendiamo dagli esseri e dalle cose, tutto ciò che crediamo ci sia dovuto, la cui mancanza ci darebbe la sensazione di essere stati frustrati» [33].
Michelangelo sosteneva che la sua scultura non nasceva da un processo di realizzazione di un’idea sulla pietra, ma di liberazione di una forma dalla pietra: «Ciò che faccio è liberare!» ripeteva sempre. Come il lavoro del vasaio che descrive il profeta Geremia (18,1-4) vedendo il vasaio che modellando la creta questa a volte si rompeva, ma non la buttava via: la riprendeva in mano e la modellava nuovamente. L’uomo è fatto di argilla ci ricorda l’inizio della Genesi. Quando l’uomo sbaglia, quando pecca, non rinuncia a riporre ancora la fiducia in lui e a continuare a sperare. Come ha fatto con Caino con la famosa frase che riassume il concetto di protezione nei suoi confronti: “Nessuno tocchi Caino!” (Genesi 4,15).
Non è sempre facile capire il Signore e seguire il Vangelo, anche se volessimo farlo con tutto il cuore. Noi crediamo, magari a modo nostro, ma spesso crediamo sinceramente. Quando però si comincia a parlare di morte, di persecuzione, di fallimento, di accettare la propria croce… no, facciamo fatica. La stessa fatica che facciamo a perdonare. Noi ragioniamo e agiamo in genere come ragionano e agiscono tutti, all’interno di una cultura e di una società che ci appartengono, ma che in realtà siamo noi ad appartenere ad esse. Gesù ci dice di amare il prossimo e noi amiamo… ma a compartimenti stagno e a tempo, solo quelli con i quali riusciamo a istaurare un buon rapporto e che ricambiano il nostro amore. Ma chi sgarra paga: dimenticando che chi non sa perdonare non sa neppure amare. Ci riesce difficile seguire il Vangelo anche quando si parla di resurrezione, di rinascita, di fiducia, di vittoria inattesa... di miracoli. Il mondo non parla così. Noi crediamo… ma il dubbio rimane.
Il Gesù dei vangeli parla di donare la vita, mentre noi umani passiamo la vita a conservarla spesso in modo egoistico... Non so quanti oggi riescono ad entrare nella logica del Cristo, disposto a morire per amore degli esseri umani. A noi, alla fine, ciò che davvero importa è salvare la nostra vita ad ogni costo! Noi non siamo disposti a dare tutto, perché sappiamo benissimo che amare, a volte, significa esporsi in prima persona, lasciarsi andare, accettare profondi cambiamenti personali.
Ciò che è peggio è che invece di affidarci serenamente alla parola di Cristo e affidarci al giudizio di Dio ci lasciamo guidare dal buon senso come fanno tutti e non ci preoccupiamo minimamente del giudizio divino. Ripensando alla nostra fede ci sarebbe da scoraggiarsi! Ma il Cristo ci comprende molto più di quanto noi pensiamo e Dio ha più misericordia di quanto noi possiamo immaginare.
Quando un giorno Gesù prese un bambino e con quel candore che lascia intravedere Dio, chiese di accogliere i piccoli, gli ultimi, i meno importanti, come allora erano considerati i bambini, insegnando ad essere come loro, non pose i bambini ad esempio di purezza o d’innocenza, come siamo solitamente portati a ritenere, ma perché sono fiduciosi in chi li ama. Come a dire: se Dio ha aperto il suo cuore a tutto il cosmo e all’umanità intera, agli ebrei e a quelli che ebrei non sono, ai cristiani a quelli che cristiani non sono, ai credenti e a quelli che credenti non sono, a chi ha una fede solida e a chi dubita, siate comprensivi anche voi, perdonate anche voi, accogliete anche voi. Molte volte prevalgono le lotte, i contrasti, le opinioni discordanti, i pregiudizi, i giochi di potere, le offese e la violenza verbale o fisica o psicologica… e si sbaglia, si pecca. Da lì è difficile tornare indietro, ma si può! Dio si rivela a chi, come i bambini, è totalmente dipendente dal Signore che li ama e da Lui si lascia guidare anche per le strade più buie e incomprensibili, come quella del perdono da accogliere e da offrire.
Nonostante noi passiamo la vita a conservarla, a proteggerla, a difenderla e a migliorarla, nonostante non riusciamo a entrare nella logica del Vangelo di Cristo che era disposto a morire per amore, nonostante non siamo disposti ad amare fino in fondo e a perdonare sapendo benissimo che amare significa anche accettare profondi cambiamenti… nonostante tutto questo e molto altro ancora, il Vangelo di Gesù Cristo anzitutto testimoniato dalle versioni di Marco, Matteo, Luca e Giovanni invita a ricominciare ad avere fiducia in Colui che vuole ridare agli esseri umani la possibilità di ricominciare. Ogni momento è buono per cominciare o ricominciare un cammino di fede! Si ricomincia ad accogliere il perdono di Dio e lo si accoglie quando si comprende cosa significa anche offrirlo.
Come insegnavano i Padri del deserto, i primi monaci del IV secolo nel deserto egiziano, bisogna avere il coraggio e l’umiltà di ricominciare sempre daccapo. Cristiani non si nasce... si diventa e lo si diventa in un lungo percorso di vita fatto di cadute e di rialzate, di offese ricevute e di offese perdonate, che come l’orizzonte è un ideale che è sempre davanti a noi senza che mai lo si possa raggiungere. In questa breve richiesta del rimettere i debiti, il testo evangelico esorta a non lasciarsi soffocare dalle ombre che abitano il proprio cuore, perché siamo esseri umani, né dalle ombre che si scatenano da quanti ci fanno del male, perché sono esseri umani fragili come noi.
Solo chi sperimenta la forza straordinaria dell’amore comprende la necessità del perdono, che altro non è che un eccesso di amore! Di fronte all’amore che ci viene negato, le graffianti offese che siamo costretti a subire, alle immeritate sofferenze del corpo e dell’anima, solo l’eccesso d’amore può far comprendere il perdono, che è capace di rialzarci e di rialzare coloro dai quali abbiamo subito il male. In questo cammino ci immette la preghiera del Padre nostro.
Alla fine di queste riflessioni, ritengo comunque che un contemporaneo comprenderebbe meglio, e il significato originario del testo non ne sarebbe per nulla alterato, una traduzione che offrisse queste formulazioni, ossia “Rimetti a noi i nostri debiti, anche noi ugualmente li rimettiamo ai nostri debitori”, o “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi abbiamo compreso a rimetterli ai nostri debitori”.
(g) “Non c’indurre in tentazione” – “non ci esporre alla tentazione”
Luca e Matteo |
καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν. e non ci fare entrare nella tentazione. |
Nei confronti di questa richiesta, l’unica delPadre nostroespressa in negativo, è spontaneo chiedersi come sia possibile che Dio possa tentare l’esser umano al pari del demonio che tenta. Dio pone forse deliberatamente degli ostacoli sul cammino dell’uomo? Molto è già stato scritto per confutare questa idea. Anche lo stesso papa Francesco ha sottolineato che ciò sarebbe in contraddizione con l’immagine di Dio come Padre amorevole.
Oggi come ai tempi del Nuovo Testamento, Dio non è mai presentato come il Tentatore («Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno»- Gc 1,13). Al contrario è Satana a cui è attribuito questo ruolo, ma dietro il permesso divino (Gb 1,1-12).
Anche in questo caso, molti dei problemi realmente presenti o solo evocati da questo testo evangelico vanno chiariti e approfonditi dalla teologia e le soluzioni corrette esposte ai fedeli nella catechesi, nella predicazione e nella cura d’anime.[34] Quanto ai problemi di traduzione, essi sono nella sostanza due, variamente collegati[35].
In ambito protestante la Bibbia Riveduta(la «Luzzi» del 1924) introdusse la traduzione «non esporci», mentre la liturgia cattolica ha continua a preferire sino a pochi giorni fa «non indurci». Fra le traduzioni recenti, invece, si assiste a una diversificazione rispetto alla tradizione. La nuova Bibbia della Conferenza episcopale italiana (2008) propone un «non abbandonarci alla tentazione» e la Traduzione Interconfessionale in Lingua Corrente(Tilc) traduce «fa’ che non cadiamo nella tentazione».Analoghe associazioni evoca il «ne nous soumets pas à la tentation» finora utilizzato in francese. Per questo motivo dopo anni di lavoro i cattolici di lingua francese hanno optato per una riformulazione. Adesso l’invocazione recita: «Ne nous laisse pas entrer en tentation» - (non lasciarci entrare nella tentazione).
Se ci si basa sul testo originale greco, la traduzione scelta dai vescovi cattolici francesi risulta essere abbastanza libera forzando il significato e la traduzione di eisféro(εἰσφέρω, condurre). Gesù, però, parlava aramaico. E il verbo aramaico o ebraico che presumibilmente sta alla base dell’espressione greca dei due testi evangelici potrebbe anche avere un significato meno attivo. Questa la motivazione di fondo pe il testo adottato dalla conferenza dei vescovi di Francia.
In realtà, non esiste un’unica traduzione del verbo greco. “Indurre”, “condurre”, “sottoporre”, “far entrare” sono tutte traduzioni possibili. Il “non lasciarci entrare” tornato ora di attualità era addirittura già stato in uso un tempo. Ciò nonostante per la scelta del nuovo testo in francese, che probabilmente sarà ufficialmente adottato anche in italiano, sono soprattutto i teologi riformati della Svizzera francese a non essere soddisfatti della nuova traduzione, ritenendo, dal punto di vista esegetico, che la speculazione su un testo originale aramaico sia pura congettura visto che esso non è disponibile. I riformati svizzero-romandi ritengono che con questa traduzione si sia voluto ammorbidire un testo scomodo. E ancora si afferma che un Padre nostroleggermente modificato non elimina la questione del male[36].
L’incertezza nella traduzione, comunque, nasce dalla difficoltà di rendere il verbo greco eisféro(εἰσφέρω): «portare in», «far entrare». Gerolamo lo tradusse in latino con induceree di qui viene l’italiano «indurre», solo apparentemente più letterale. La ragione della traduzione di Luzzi fu spiegata bene da Giovanni Miegge[37], per il quale “indurre” in italiano implica l’idea di esercitare una pressione su qualcuno, perché faccia qualcosa, magari contro la sua volontà, ma il verbo greco non vuole assolutamente dire questo. “Esporre” è certo «meno vigoroso, meno elegante e sembra un’attenuazione, ma per lo meno non si presta allo scandalo»[38].
Cercando di esaminare approfonditamente il testo, al significato del termine greco peirasmòs(πειρασμός, tentazione), qui e all’interno della letteratura biblica, non si può dare una connotazione moralmente negativa (istigazione al male) che è inapplicabile a Dio. Il termine può avere anche il senso di “prova”, “esame morale” e simili[39]. Pertanto la nostra frase esprimerebbe l’umile riconoscimento della propria debolezza e la preghiera che Dio ci eviti quelle prove che tuttavia per la tradizione biblica, proprio per volontà divina, farebbero parte del cammino di fede, come esprime la nota sentenza di Giobbe «una continua prova(LXX: πειρατήριoν; Vulg.: tentatio) è la vita dell’uomo sulla terra»[40].
Molti esegeti ricorrono in proposito ad un significato figurato-escatologico del termine greco, riferendolo alla “grande tentazione finale”, quella cioè collegata agli ultimi tempi e all’apparizione dell’Anticristo. Ad esempio, seguendo il filone esegetico apocalittico si dovrebbe intendere “tentazione” (peirasmòs) come la grande prova della fine dei tempi riportata in un brano dello stesso Vangelo secondo Matteo (24,21-22), talmente grave che se non fosse abbreviata neppure gli eletti si potrebbero salvare. In tal caso il senso di quell’espressione risulterebbe immediatamente più comprensibile da un punto di vista esegetico, ma meno applicabile alla vita quotidiana dei credenti, che nel corso di quasi due millenni hanno recitato il Padre nostroin una situazione in cui solo nel primo secolo e nel monachesimo orientale avvertivano una forte tensione escatologica.
Una seconda pista per eliminare la difficoltà è quella di riformulare il testo, interpretando il verbo eisfèro(εἰσφέρω), qui usato all’aoristo congiuntivo, come permissivo, per cui si otterrebbe il senso “non permettere che entriamo (in tentazione)” oppure addirittura “non permettere che cadiamo in preda o soccombiamo alla tentazione”. Questa soluzione basata sulla reinterpretazione del verbo viene combinata da diversi studiosi con il significato escatologico di peirasmòsricordato sopra, ottenendo così la traduzione “non permettere che soccombiamo nella prova finale”.
In questo caso il problema della traduzione si presenta particolarmente complesso. Non ci sono vere prove che il senso della richiesta abbia per oggetto la prova ultima, la tentazione escatologica. Non è certo che la forma verbale greca usata da Matteo sia da intendere in senso permissivo. È d’altronde innegabile che nella vita dei cristiani la fedeltà a Dio si testimonia normalmente e continuamente nelle prove e nelle tentazioni. Scriveva Simon Weil, a proposito di questa richiesta, che: «l’unica prova, per l’uomo consiste nell’essere lasciato in balia di se stesso, a contatto con il male. Il nulla che è l’uomo allora è verificato sperimentalmente» [41].
Dato infine che alcune delle formulazioni proposte sono piuttosto contorte, pensiamo che si possa al massimo attenuare la difficoltà del testo traducendo: “non permettere che soccombiamo nelle tentazioni” o, se si volesse lasciar la frase in negativo, si potrebbe tentare l’espressione “non lasciarci soli nella tentazione, ma liberaci…”. Nel tentativo di rendere semplice e allo stesso tempo chiaro il testo, si potrebbe tentare l’espressione “aiutaci nella tentazione e liberaci…”.
(h) “Liberaci dal male”?
Luca |
Matteo |
ἀλλὰ ῥῦσαι ἡμᾶς ἀπὸ τοῦ πονηροῦ. ma liberaci dal male |
L’alternativa tra “dal maligno” o “dal male” nasce dalla constatazione che il genitivo tοû ponerοû(τοῦπονηροῦ) presente nell’originale (solo in Matteo)[42]può derivare da un maschile (il maligno, cioè il diavolo) oppure da un neutro (il male). Da un punto di vista puramente grammaticale le due traduzioni sono egualmente possibili. Anche la traduzione latina (libera nos a malo) poteva evitare di sciogliere il dubbio, dato che “a malo” può riferirsi sia al demonio che al male. Ciò è invece inevitabile, per esempio, in italiano, dove è necessario optare per una delle due scelte di traduzione.
La prima traduzione (il maligno), scelta fatta dalle chiese ortodosse, sembrerebbe più probabile in bocca a Gesù, analogamente ad altri detti di Matteo (cfr. 5,37; 3,19; 13,38). Anche in questo caso tuttavia non si può sostenere che il concetto di male sia impensabile in un ebreo del I secolo. In Mt 5,11; 9,4 e 12,35c il significato di un’entità personale è escluso e il termine greco in questione può avere il solo significato di “male morale”[43].
Se il Padre nostrorappresenta il nucleo della fede cristiana, le traduzioni devono essere soprattutto comprensibili, perché i popoli del mondo possano integrarle nel linguaggio della propria cultura. Il Padre nostroè stato tradotto in più di mille lingue, ma il rischio è che le sue parole, trasportate nelle diverse culture e nelle loro lingue, possano essere fraintese al punto da cadere in un errore teologico, veicolando un concetto di Dio che non corrisponderebbe alla visione che ce ne dà Gesù dei testi evangelici.
Nel caso specifico dell’ultima richiesta, quando una persona è tentata ed è consapevole di esserlo è allora che deve pregare chiedendo al Signore di fare qualcosa. La questione della tentazione non si comprende se si slega dal resto della frase «...ma liberaci del male», che è un tutt’uno con la prima parte della richiesta completandone il concetto.
Nell’insegnare ai suoi discepoli a pregare con queste parole, Gesù, o la comunità che l’ha tramandata, prende in considerazione la loro fragilità. Esposto alla tentazione, il credente è in pericolo di cadere. Anzitutto il Padre nostronon vede nella tentazione un’occasione per affermare la fede, ma al contrario una minaccia alla fede e nel Dio del Padre nostrosi mostra la Sua sollecitudine nel preoccuparsi per la fragilità e la fallibilità dell’essere umano. L’ultima parte del Padre nostro non è pertanto una domanda negativa “non ci fare entrare nella tentazione”, ma l’aiuto ad una richiesta positiva “liberaci dal male”. Il significato potrebbe quindi essere “Tu non ci fai cadere nella tentazione, ma il maligno sì, allora liberaci dal maligno”. Dio è sollecitato a compiere un gesto liberatorio. L’ultima parte del Padre nostro giustifica la richiesta precedente e la chiarisce. In tal senso si potrebbe tradurre, senza tradire il testo, “aiutaci (quando cadiamo) nella tentazione e liberaci dal male” (con lettera minuscola).
La realtà del potere del male che si nasconde dietro alla tentazione è presa molto sul serio. Il credente è debole è chiede l’aiuto divino per non essere soffocato e distrutto dalla forza del male. Non c’è dubbio che le due ultime richieste del Padre nostro col “noi” formulino qualcosa di assolutamente necessario nel cammino della fede: evitare a tutti i costi che non si interrompa il rapporto accolto col Dio di Gesù Cristo!
Il cammino di fede, fino alla fine, sarà vissuto nella fragilità, nel dubbio, nella fiducia e nella tentazione. La fede cristiana non è un parafulmine che scampa dai problemi e dalle malattie, ma sostiene nell’attraversarli. Ciò che cambia è la maturità spirituale che man mano cresce e ci irrobustisce, fino a fare nostra la risposta che ricevette Paolo alle sue richieste che il Signore allontanasse una spina dalla sua carne: «La mia grazia ti basta!» (2Cor 12,8).
Se ci soffermiamo ad accostare le richieste del Padre nostroe l’episodio delle tentazioni di Gesù in Matteo 4,1-11, noteremo il parallelo tra la santificazione di Dio (“sia santificato il tuo nome” e “Non metterai alla prova il signor Iddio tuo”), il pane (“dacci oggi il nostro pane quotidiano” e “non di solo pane vive l’essere umano”), il regno di Dio (“venga il tuo regno”, “Adorerai il Signore Iddio Tuo e a Lui solo renderai il culto”). Ovviamente la tentazione di Gesù non avvenne nei quaranta giorni trascorsi nel deserto secondo i testi evangelici, ma come il popolo d’Israele nei quarant’anni biblici di peregrinazione nel deserto del Sinai, fu una lotta interiore che affrontò durante tutto il suo ministero.
Potremmo riassumere queste tre tentazioni con la tentazione del materialismo:
- la gastrimargia, ingozzarsi di tutto ciò che è materiale facendone il fine della propria esistenza;
- la tentazione del provvidenzialismo:mettere da parte le proprie responsabilità storiche, sociali e individuali confondendo Dio e la stessa fede come una sorta di fatalismo provvidenziale che da Dio viene concesso grazie alla nostra fede;
- la tentazione dell’assolutismo: ritenere Dio come strumento del nostro potere politico, sociale e psicologico[44].
In queste tre grandi tentazioni, che partono da una sola grande tentazione, la filauthìao “amore di sé”, s’innestano gli otto loghismoi(pensieri malvagi, demoni) di cui scrivevano gli antichi padri: gola, avarizia, lussuria, ira, tristezza, accidia, vanagloria, superbia.
La prima parola della preghiera di Gesù è “Padre” mentre l’ultima è “male”, come ad indicare un bivio nella direzione della propria vita, una scelta fondamentale che inevitabilmente o l’una o è l’altra. Allo stesso tempo rivela la continua tentazione di chiamare “padre”, sorgente della nostra vita, ciò che invece simula il vero Padre, abbracciando le contraffazioni che vanno a sostituire la sua figura fondamentale e strutturante[45]. Nel cammino cristiano è fondamentale chiamare “Padre” ciò che è Padre e chiamare “male” ciò che è male.
In italiano abbiamo un’imprecazione che usiamo spesso senza renderci conto che si tratta di una bestemmia: “Diamine!”, che la contrazione dell’espressione “Diabolus est domine” (il diavolo è il signore), ciò che succede quando gli antichi “pensieri malvagi” diventano i nostri demoni interiori che guidano la nostra esistenza. È stato il dramma di Eva, nel racconto del primo capitolo della Genesi. Se lei non avesse visto il fritto come “bello” e non avesse fantasticato che fosse anche appetitoso non lo avrebbe mangiato. Il dramma nostro è che il male appare legato al bene tanto da scambiare l’uno per l’altro.
La storia di Caino e Abele in Genesi 4, affronta lo stesso problema: Dio afferma che l’essere umano può e deve dominare il male in modo che la fraternità continui a essere una decisione e un progetto alla portata di tutti gli esseri umani. Nell’episodio biblico Dio dice aCaino «Tu puoi su di esso» (תמשל-בו,timshel-bo), “tu puoi/devi vincere il male”.
Conclusione
Tradurre non è mai un fatto puramente tecnico e neppure solo rigorosamente filologico, così come l’adeguarsi a un uso non può essere giustificato solo da ragioni di convenienza o di opportunità, ma di comprensibilità e di fedeltà a quello che il testo originariamente voleva esprimere. I termini di riferimento ermeneuticamente indispensabili sono sempre quelli di porre la preghiera “in situazione”. Di fronte al Padre nostroogni generazione di credenti è dunque chiamata a ripetere fedelmente quelle parole lasciandosi giudicare da esse e, nello stesso tempo, è invitata a collegarle a un contesto che le renda eloquenti per il modo in cui essa vive la fede. Il seguente testo è un mio tentativo di presentare il Padre nostrotenendo conto della sensibilità spirituale dei contemporanei:[46].
Inconoscibile Origine della vita
che sei nel cosmo e al di là di esso,
come nelle profondità della nostra anima,
possa Tu essere onorato e riconosciuto nel Cristo Gesù.
Paterna presenza, fonte di ogni Energia,
che il tuo Spirituale cammino si attui in noi,
possa Essere accolto ovunque nel cosmo intero
e progredire in tutti gli esseri viventi
con intelligenza, laboriosità e dignità.
Grande è ancora il nostro debito d’amore e di rispetto
nei confronti Tuoi, delle terre, delle acque
e di tutti gli esseri con i quali condividiamo
la Via, la Verità e la Vita.
Che nessuno di noi abbandoni la Traccia
che Tu stesso hai segnato e ci attraversa
cedendo all’abbandono dell’infima ricerca
del solo amore di sé.
Da tutta e per tutta l’eternità a Te appartengono
l’Esistenza e l’Energia che dà la Vita,
vince il male e supera la morte.
Se un testo simile possa essere accolto e recepito da tutti i cristiani contemporanei è mera illusione. Probabilmente da una cerchia sensibile all’ecologia e ad una visione universalistica e cosmica di Dio e della fede. Forse solo da quelli che sono lontani dalla Chiesa e dalle sue formule e riti distanti dalla gestualità e dal modo di parlare contemporanei. Come parafrasi del Padre nostrone è stata proposta una nella rivista “Évangile et Liberté”dei teologi liberali di Francia:
Padre Nostro, che sei nella vita di tutti gli Uomini che cercano la giustizia perché amano i loro fratelli e Ti servono
Il Tuo nome è santificato da tutti coloro che difendono la vita dei poveri e degli umili che hanno fede e speranza in Te e che lottano per il rispetto della loro dignità
Venga il Tuo regno, il Tuo regno che è Libertà e Amore, Fratellanza e Giustizia, Diritto e Verità
Sia fatta la Tua volontà, Tu che sei libertà per i prigionieri, sollievo per gli afflitti, forza per chi è torturato, liberazione e vita per coloro che soffrono la violenza
Dacci oggi il nostro pane di ogni giorno, il pane dell’eguaglianza e della gioia, il pane della Tua parola e dell’istruzione, il pane della terra e dell’alloggio, il pane del nutrimento e dell’assistenza medica
Perdonaci per non saper condividere il pane che Tu ci hai donato, perdona la nostra mancanza di fede e di coraggio, quando, per paura, ce ne stiamo in silenzio
Non ci indurre nella tentazione che ci fa conformare ai potenti di questo mondo e che ci fa credere di essere impotenti a cambiare le cose
Ma liberaci dal male che nel profondo di noi stessi ci invita a conservare la vita per noi quando Tu ci inviti a donarla
perché a Te appartiene il Regno, e non a qualcuno che vorrebbe usurparlo, a Te il potere e non a un’organizzazione o un partito, e a Te la gloria, perché Tu sei il solo Dio e il solo Padre per sempre
Amen [47].
È solo l’espressione di un tentativo di rendere più vicini ad una parte della cultura contemporanea il testo, la preghiera e la testimonianza cristiana.
A conclusione di queste mie pagine, ritengo personalmente che il contesto in cui va posto l’impegno per una versione liturgica e devozionale del Padre nostrosia il cammino ecumenico delle chiese cristiane. Obiettivo è giungere ad avere, oltre al Credo, un’unica versione della “Preghiera del Signore”. Ritengo sia questa “la situazione” in cui va posto il Padre nostro, per dare senso e significato all’invocazione “Padre” e all’aggettivo “nostro”, nel richiamo alla preghiera di Gesù: «Io non prego soltanto per questi miei discepoli, ma prego anche per altri, per quelli che crederanno in me dopo aver ascoltato la loro parola. Fa’ che siano tutti una cosa sola: come tu, Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi. Così il mondo crederà che tu mi hai mandato» (Gv 17,20-21).
Una traduzione del Padre nostroper oggi potrebbe essere:
Padre nostro, che ovunque sei,
sii santificato nella nostra vita,
venga il tempo finale e definitivo,
nel quale la tua santità sarà riconosciuta, rispettata e proclamata da tutti.
Concedici giorno per giorno la possibilità del lavoro e della vita
e perdona a noi il male commesso,
come abbiamo compreso a perdonare chi ci ha fatto del male.
Aiutaci nella tentazione e liberaci dal Male.
Tuoi sono da sempre e per sempre il Tempo, il Potere e la Gloria.
Amen.
Breve excursus: la parafrasi dantesca
Perfino il sommo Dante si è cimentato nella traduzione in volgare del Padre nostroall’inizio dell’XI canto del Purgatorio (vv. 1-21). Tale traduzione assume tutto il suo spessore solo se la si coglie, oltre che come un caposaldo letterario, come una vera e propria rilettura ermeneutica delPadre nostroconsapevolmente ambientata in un preciso momento della Commedia.
Dante interpreta in modo dotto la versione latina del Paterricollegandosi alla patristica ed elabora una ricca parafrasi dedicando una terzina a ognuna delle sette richieste. In questo caso, a differenza di quanto fa di solito nel “Purgatorio”, non si limita a un cenno, a trascrivere cioè allusivamente il primo verso lasciando al lettore il compito di immaginarsi il seguito, ma propone un articolato e complesso ampliamento del testo liturgico contraddistinto da precise opzioni dottrinali, esegetiche e spirituali (che non possiamo approfondire in quest’articolo)[48]:
«O padre nostro, che ne’ cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
ch’ai primi effetti di là su tu hai,
laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore
da ogne creatura, com’è degno
di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de’ suoi.
Dà oggi a noi la cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto
a retro va chi più di gir s’affanna.
E come noi lo mal ch’avem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra virtù che di legger s’adona,
non spermentar con l’antico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona».
Dante, in modo abbastanza inatteso, fa sua l’interpretazione, cara agli ortodossi, di leggere in modo personale l’«avversario» intendendolo come maligno. Opta, però, per questa soluzione all’interno di un contesto in cui questa invocazione non può essere applicata a se stessi da coloro che la recitano (le anime del Purgatorio), ma è pronunciata unicamente per esprimere il legame che fa sì che tutti i credenti in Cristo siano chiamati a prendersi cura gli uni degli altri.
Da notare è anche la scelta dell’interpretazione orientale della richiesta del “pane”. Per gli ortodossi, infatti, si tratta della richiesta del pane eucaristico «pane soprasostanziale», che in Dante è «la cotidiana manna», richiamandosi al pane eucaristico del capitolo 6 del Vangelo secondo Giovanni:
«Non datevi da fare per il cibo che si consuma e si guasta, ma per il cibo che dura e conduce alla vita eterna. Ve lo darà il Figlio dell’uomo […] Ve lo assicuro: non è Mosè che vi ha dato il pane venuto dal cielo. È il Padre mio che vi dà il vero pane venuto dal cielo. Il pane di Dio è quello che viene dal cielo e dà la vita al mondo» (vv. 27.32-33).
[1]Di tale fonte fanno parte circa 250 versi di Luca. Dato che Marco, che sarebbe l’altra fonte, nella versione corta (cioè senza il finale “canonico”) ha 661 versi, le dimensioni della fonte Q sarebbero di circa un terzo del Vangelo secondo Marco. Essa è formata quasi esclusivamente da parole di Gesù, ragion per cui fu detta dai suoi ideatori tedeschi Logienquelle(fonte delle parole autentiche di Gesù).
[2]Solo una sinossi greca può mettere in risalto ad esempio il fatto che il “dacci” traduce un aoristo in Mt (δός, dos) – tempo verbale che non può trovare una corrispondenza in una traduzione in lingua italiana – e un presente in Lc (δίδoυ, didu).
[3]Nel testo lucano molti manoscritti aggiungono ad esempio all’invocazione iniziale “Padre” la frase del testo di Matteo “che sei nei cieli”, ma più numerosi sono i manoscritti che inseriscono nella versione di Luca “sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”, che ricorre in Matteo. La filologia generalmente ritiene conformi all’originale i testi privi di tali parole secondo la regola “lectio brevior est potior” (il testo più breve è migliore), considerando tali operazioni dettate dal desiderio di uniformare il testo lucano a quello più armonioso e simmetrico (e consacrato dall’uso liturgico) di Matteo. Tra l’altro in entrambi i casi il testo più breve di Luca è sostenuto dal papiro 75 e dal Codex Vaticanus, coppia che la maggior parte degli studiosi ritiene garanzia del miglior testo (cfr. B.M. Metzger,A Textual Commentary on the Greek New Testament, London/New York 1975, pp. 16-17.154-156).
[4]Tertulliano l’ha potuta qualificare breviarium totius evangelii(sintesi di tutto l’evangelo) inDe oratione1,6 (=CCSL 1,258). Lo stesso concetto, più diffusamente, si riscontra in Cipriano, De oratione dominica9 (=CSEL 3, 1, 272).
[5]Già notato da A. Lipman, Origines juives de l’Oraison dominicale, Libraire Fischbacher, Paris 1921, p. 28 (cit. da R. Aron, Gli anni oscuri di Gesù, Oscar Saggi Mondadori, Milano 1978, pp. 229-250). Anche a questo proposito si vedano le pagine della Prof.ssa Bartolini De Angeli.
[6]Berakoth, 30 a.
[7]Il Kaddishè una preghiera che gli ebrei recitano in varie occasioni e in ricordo di un congiunto defunto. Questo rapporto tra il Kaddishe il ricordo di un essere scomparso ha fatto credere che il Kaddishsia la preghiera per i defunti, in realtà è una lode a Dio e alla sua grandezza infinita. Questo testo in aramaico era recitato in epoca talmudica dai Rabbini e dai loro discepoli alla fine di ogni incontro di studio, in applicazione di un testo biblico (CEI 2008): «Io mostrerò la mia potenza e la mia santità e mi rivelerò davanti a nazioni numerose e sapranno che io sono il Signore»(Ez 38,23).
[8]Vedi anche M. Beux Jäger, Il Padre nostro: una preghiera ebraica, Zamorani, Torino 2012, pp. 60-61.
[9]Comunque è molto antica, dato che essa è già presente nella versione della oratio dominicariportata dalla Didachè(8,2-3), un testo cristiano collocabile, circa la sua redazione finale, tra la II metà del I sec. d.C. e la I metà del II sec. d.C.
[10]È il testo greco del Nuovo Testamento ricomposto da Erasmo da Rotterdam con lo studio dei manoscritti conosciuti al suo tempo, noto in seguito come Textus receptus, che venne ristampato nel 1551 dal parigino Robert Estienne, il quale per la prima volta vi introdusse la suddivisione in capitoli e versetti, la quale da allora fu adottata da tutti gli editori (ed è quella che usiamo ancora oggi).
[11]Le citazioni bibliche, se non diversamente notate, sono tratte da Parola del Signore, la Bibbia in Lingua corrente, LDC/ABU.
[12]YHWH (יהוה) è il cosiddetto tetragramma sacro, composto dalle quattro lettere che formano il nome innominabile di Dio, in obbedienza al comandamento che, in una traduzione tradizionale, recita «Non nominare il nome di Dio invano». Ancora oggi gli ebrei quando incontrano questo nome nella Bibbia o nelle preghiere lo leggono “Adonaj” (Signore). Tenendo conto che le lettere A (א) e Y (י) negli alfabeti semitici sono considerate consonanti, quando si sono inventate dei grafici per la prenuncia delle vocali per l’alfabeto consonantico ebraico, al fine di non perdere la pronuncia corretta del testo biblico, si sono aggiunti le vocali di AaeDoNaYal tetragramma sacro YaeHoWaH, da qui il nome Jehovahnella traduzione latina, che in italiano è stato reso con ETERNO o SIGNORE (da qui possiamo dedurre che è insostenibile l’affermazione che “Geova” sia il vero nome di Dio).
[13]Opportunamente l’introduzione al Padre nostro della liturgia latina parlava di “audemus” (“osiamo” dire «Padre nostro…»), formulazione che la liturgia cattolica conserva, nell’orazione che introduce tale preghiera.
[14]Sul rapporto divinità-cielo nell’antichità cfr. C. Cannuyer, “Il cielo nella Bibbia”in «Il mondo della Bibbia» n. 1, 61(2002)13-17.
[15]Così ad esempio nel Salmo 54,3 a motivo del parallelismo con la radice GBR(גבר) nella seconda parte del verso.
[16]Così già ad esempio in Lev 24,11.16; Dt 12,5.21 e 14,24; 2Cr 6,20 ecc. e, per la letteratura rabbinica, Sanh VII,5; Ber IX,5; Yom III,8; IV,2; VI,2 ecc. Si veda l’esaustiva trattazione del tema all’interno della voce š’m/NOME in Jenni- Westermann, Dizionario teologico dell’Antico Testamento, Casale Monferrato 1992, II, coll. 845-869.
[17]“Jo” o “Ja” compare come forma prefissa o suffissa nella composizione dei nomi propri, come accadeva per altre divinità Baal/El/Allah/Molok, appare in altri nomi propri semitici (Jeremi-ja/Jeru-baal, Jesa-ja/Jesa-el, Jo-natan/Natan(a)-el, Malaki-ja, Gabri-el, Rafha-el, Mike-ja/Mika-el, Abd-el/Abdi-ja/Abd-allah, Jo-akim/Akim-molok/Akim-melek, ecc).
[18]Cfr. anche Gv 1,18; 5,37; 6,46; Col 1,15.
[19]Questa, come altre frasi, vengono comunemente attribuite a Gregorio di Nissa anche se non si ritrovano nei suoi scritti nella stessa formulazione, almeno nei luoghi ordinariamente indicati (De Vita Moysis: PG 44,377B; In Cantic., Hom. XII: PG 44,1028D). Gregorio di Nissa, però, esprime tale concetto con molta chiarezza quando scrove in La vita di Mosè (PG 44,377): «Ogni concetto formato dall’intelletto nel tentativo di cogliere e discernere la natura divina, non arriva se non a foggiarsi un idolo, non a far conoscere Dio». Nel commento al Cantico dei cantici il nisseno scrive: «Parla la Sposa: “Nella notte ho cercato di sapere qual è la sua essenza (...) Ma non ho potuto trovare. L’ho chiamato con tutti i nomi con cui si può chiamare, ma nessun nome ha avuto la forza di raggiungerlo”. Come infatti raggiungere con un nome colui che è al di là di ogni nome ?» (Cantic.Cantic., Hom. VI: PG 44, 893). La conoscenza di Dio non può̀ essere identificata con un puro percorso razionale, così come del resto nemmeno la conoscenza dell’essere umano.
[20]Gv 5,4.
[21]De Oratione Domini, 12.
[22]Cfr. Gv 5,14.
[23]“Il dono della perseveranza”, in Agostino Trapé(a cura di ), Opere di Sant’Agostino. Grazia e libertà, vol. XX, introduzioneenotediAgostinoTrapè,trad. di Maria Palmieri, Città Nuova Editrice, Roma 1987, pp. 302-401; la citazione di cui sopra è nelle pagine 307 e 308.
[24]Simon Weil, A proposito del «Pater», in Id., Attesa di Dio,(a cura di Concetta Sala), Adelphi, Milano 2008, p. 89.
[25]L’unica ricorrenza precristiana nota a tutt’oggi è quella (peraltro essa stessa incompleta) registrata in Preisigke,Sammelbuch griechischer Urkunden aus Ägypten I, K.J. Trübner, Strassburg 1915, Nr.5224,20, tratta da un papiro, contenente una lista di spese, ora purtroppo andato smarrito. Origene dichiara che il termine non gli consta esistere né nella lingua dotta né in quella profana.
[26]Cfr. Nr. 62, r. 42. Si tratta di una traduzione aramaica di tipo targumico (parafrasi) del vangelo secondo Matteo, o di frammenti purtroppo perduti.
[27]Vedi in Corpus Christianorum, Serie latina, LXXVII, S. Hironimi presbyteri opera, pars I,7, p. 37. Lo stesso testo leggermente modificato lo troviamo in Commentariorum in Evangelium Matthaei ad Eusebium libri quatuor, Liber Primus, Caput VI, vers. 11-13,in J.-P. Migne (a cura di), Patrologiae cursus completus, Series latina, Vol. 26., J.-P. Migne, post. R. Khazarzar, Paris 1845, pp. 15–218: « Panem nostrum supersubstantialem da nobis hodie. Et dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris. Et ne nos inducas in tentationem. Sed libera nos a malo. Quod nos supersubstantialem expressimus, in Graeco habetur ἐπιούσιον: quod verbum Septuaginta interpretes περιούσιον frequentissime transferunt. Consideravimus ergo in Hebraeo, et ubicumque illi περιούσιον expresserunt, nos invenimus SGOLLA (סגולה), quod Symmachus ἐξαίρετον, id est, praecipuum, vel egregium, transtulit, licet in quodam loco peculiare interpretatus sit. Quando ergo petimus ut peculiarem vel praecipuum nobis Deus tribuat panem, illum petimus qui dicit: Ego sum panis vivus qui de coelo descendi(Joan. VI, 51). In Evangelio quod appellatur secundum Hebraeos, pro supersubstantiali pane, reperi MAHAR (מחר), quod dicitur crastinum; ut sit sensus: Panem nostrum crastinum, id est, futurum da nobis hodie. Possumus supersubstantialem panem et aliter intelligere, qui super omnes substantias sit, et universas superet creaturas. Alii simpliciter putant, secundum Apostoli sermonem dicentis (I Tim. VI, 8): Habentes victum et vestitum, his contenti sumus, de praesenti tantum cibo sanctos curam agere. Unde et in posterioribus sit praeceptum: Nolite cogitare de crastino. Amen. Signaculum orationis Dominicae est: quod Aquila interpretatur, fideliter: nos, vere, possumus dicere»,
[28]Il richiamo alla tradizione rituale ebraica di «Dacci oggi il nostro pane quotidiano...» si ritrova anche nelle benedizioni che accompagnano i pasti e durante i quali il capofamiglia divide e benedice il pane con la seguente espressione: “Padre nostro, Nostro Dio, dacci il nostro nutrimento e provvedi alle nostre necessità”. Il tema del pane quotidiano lo troviamo anche in altri testi della Torah (Es 16,15-19) o del Talmud, in cui si parla della manna (Talmud. Sotah48 b).
[29]S. Weil, A proposito del «Pater», in Id., Attesa di Dio, (a cura di Concetta Sala), Adelphi, Milano 2008, pp. 91-93.
[30]Anche in questo caso la tradizione manoscritta registra il problema: anche molti antichi manoscritti (oltre alla Didachè) sostituiscono l’aoristo di Matteo con il presente, mentre altri usano in Luca un tempo del passato al posto del presente.
[31]Jeremias, a proposito del testo di Matteo, arriva a dire che esso ha «quasi l’effetto di un corpo estraneo», s’intende allo spirito del Padre nostro (Neutestamentliche Theologie,p. 195).
[32]“Rimettici i nostri peccati” è una variazione della sesta benedizione detta selichah (perdono) nella preghiera delle Diciotto Benedizioni: “Perdonaci, Padre nostro, perché abbiamo peccato; assolvici, Re nostro, perché ci siamo ribellati. Tu infatti assolvi e perdoni. Benedetto sei tu Signore, che sei clemente e largo nel perdonare”; tratto da Joseph Heinemann, La preghiera ebraica. Introduzione, traduzione e note a cura di Alberto Mello, Ed. Qiqajon, Magnano 1992, p. 53.
[33]S. Weil, A proposito del «Pater», in Id., Attesa di Dio, (a cura di Concetta Sala), Adelphi, Milano 2008, p. 93.
[34]Tutta questa problematica è presente già in Gc1,13 (“nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio». perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male ecc...”). È chiaro che qui si intende “tentazione” nel senso di “sollecitazione al male morale”.
[35]Nella tradizione ebraica abbiamo la seguente preghiera: “Non ci abbandonare nel potere del peccato, della trasgressione, dell’errore, della tentazione né della vergogna. Non lasciar prevalere in noi l’inclinazione al male” (Preghiera del mattino)
[36]Vedi J. Zumstein, professore emerito di Nuovo Testamento all’Università di Ginevra (cfr. “Ne nous laisse pas entrer en tentation”, https://www.kirchenbund. ch/sites/default/files/media/pdf/aktuell/2180110_crpl_depliants.pdf). Il disagio da parte riformata, comunque, non riguarda soltanto l’aspetto teologico. Anche il modo in cui il cambiamento è stato realizzato è oggetto di critiche. Si parla di azione unilaterale cattolica, i protestanti non sono stati coinvolti, diversamente dalla traduzione finora in vigore, sviluppata congiuntamente da tutte le confessioni cristiane nel 1966.
[37]Giovanni Miegge (1900-1961), teologo e pastore valdese, esponente della teologia dialettica, contribuì in maniera decisiva a far conoscere il pensiero di Karl Barth in Italia. Autore di molti libri, fra i quali una biografia teologica di Lutero e la traduzione de L’Epistola ai Romanidi Karl Barth.
[38]M. Miegge, Il Sermone sul Monte, Claudiana, Torino 1970, p. 216.
[39]Così ad esempio in Sir 6,7; 27,5.7; 1Pt 4,12 e nel Pastore di Erma39,7.
[40]All’incirca lo stesso significato esprime un agraphonriportato da Tertulliano in De baptismo20,2: «neminem intemptatum regna caelestia consecuturum». Cfr. anche Gen 21,1 e soprattutto Mt 4,1: «Lo Spirito condusse Gesù nel deserto perché fosse tentato dal diavolo».
[41]S. Weil, A proposito del «Pater», in Id., Attesa di Dio, (a cura di Concetta Sala), Adelphi, Milano 2008, p. 96.
[42]In questo caso, di certo per parallelismo, moltissimi manoscritti inseriscono la frase anche nel testo lucano.
[43]Nella tradizione ebraica riscontriamo la seguente preghiere nella Amidah, la settima dele Diciotto Benedizioni detta gehulla(redenzione): “Guarda la nostra miseria, difendi la nostra causa e redimici presto in grazia del tuo Nome, perché tu sei un Redentore forte. Benedetto sei tu Signore, Redentore di Israele”; tratto da Joseph Heinemann, La preghiera ebraica. Introduzione, traduzione e note a cura di Alberto Mello, Ed. Qiqajon, Magnano 1992, p. 53.
[44]Cfr. M. J. Tolentino, Padre nostro che sei in terra,Edizioni Qiqajon, Magnano (BI) 2013, pp. 128-130.
[45]Cfr. ivi,p. 136.
[46]Il tessto è una mia composizione, finora non pubblicata, utilizzata nel dialogo con non-credenti e agnostici.
[47]Cfr. https://www.evangile-et-liberte.net/2013/03/un-variante-del-padre-nostro/ [consultato il 12 maggio 2018]
[48]Vedi L. Pirone, Il Padre nostro nel Purgatorio dantesco, in http://webs.ucm.es/info/italiano/acd/tenzone/ t9/peirone.pdf [consultto il 25 settembre 2018]. Per quanto concerne il tema del rapporto tra Dante e la Bibbia si veda G. Barblan(a cura di), Dante e la Bibbia, Atti del Convegno internazionale promosso da Biblia, Firenze 26-28 settembre 1986, Olschki, Firenze 1988. Il testo riportato è quello della versione critica di G. Petrocchi.