Matteo 10,16
«Siate astuti come serpenti e puri come colombe»
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Strano sentire questa frase da Gesù.
Qualsiasi pastore o prete esorterebbe la propria comunità predicando “Siate puri come colombe”. Perché Gesù aggiunge “Siate astuti come serpenti”?
Eppure proprio questa frase di Gesù dà una visione del tutto realistica della vita del cristiano nel mondo, perché per essere un buon cristiano e una buona cristiana ci vogliono sì purezza e fede, ma anche intelligenza, arguzia e astuzia, perché il cristiano e la cristiana non devono essere né sciocchi né sempliciotti. La franchezza, il coraggio e saper chiamare le cose con il loro nome devono accompagnare la testimonianza della nostra fede.
La fede è un lungo cammino sulla terra, come quello che percorsero i Magi, che la scienza aveva reso curiosi e in ricerca, mentre la fede li aveva resi intrepidi e coraggiosi. Essi intrapresero un cammino, lungo il quale seguirono una luce in cielo domandandosi dove li avrebbe condotti. Alla fine del percorso trovarono un bambino in una mangiatoia domandandosi chi fosse mai quel bambino.
La storia dei Magi non è una favoletta per bambini, anche se costruito nel genere letterario dei racconti, ma è il percorso cristiano che ci pone una sola domanda fondamentale: “Chi è Cristo per me?”.
Questo è il cuore del Vangelo che c’impone di non fondare la nostra fede sui miracoli, sulle dimostrazioni, su argomentazioni storiche, filosofiche, teologiche, sentimentali o moralistiche. La fede non è neppure qualcosa che riempie il cuore e svuota il cervello e neppure qualcosa che si subisce. Al contrario la fede ci attiva, ci apre a una visione su di noi, sul mondo e sul futuro.
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Forse noi ci siamo fatta della fede e di Gesù una visione troppo sdolcinata.
Quando Gesù fu schiaffeggiato nel sinedrio la notte del suo processo non porse l’altra guancia, ma reagì con una domanda chiedendo spiegazioni per quello schiaffo. Il Cristo non si lascia crocifiggere per debolezza, perché dice: “La mia vita nessuno me la toglie, ma io la depongo da me” (Giovanni 10,18); lo fa volontariamente, con cognizione di causa, sapendo quel che fa. Lasciarsi mettere i piedi in testa non è una gran bella testimonianza di forza e di carattere. Senza dubbio bisogna saper dare, ma dare non è lasciarsi derubare. Gesù non dice: “Se ti prendono il mantello, lasciati rubare anche la tunica” ma “dagli la tunica” e “Se ti percuotono sulla guancia sinistra lasciati percuotere anche sulla destra” ma “porgi la destra”.
Ecco la posizione attiva del cristiano!
L’Evangelo non è un incitamento alla passività, al contrario invita a una certa intelligenza attiva e allo stesso tempo ci sprona a non staccarci mai dall’ideale di purezza e di perfezione.
La colomba e il serpente devono convivere in noi, ma la colomba deve equilibrare senza sosta il serpente e viceversa.
La grande difficoltà della vita del cristiano è proprio salvaguardare tale equilibrio. Cristo non ci chiede di ritirarci dal mondo, anche se decidessimo di vivere nascostamente in un monastero. La fede spinge ad agire e quindi a partecipare al miglioramento dell'uomo, a non perdere gli ideali di un mondo di pace, di giustizia e di fratellanza. Anche la vita eremitica può essere azione nella ricerca dell'essenzialità, forza della rinunzia consapevole e motivata.
Il cristiano è quindi sempre combattuto tra il serpente, intelligente e terra terra, e la colomba che si libra nei cieli. Se è troppo serpente è schiacciato nella polvere, se è troppo colomba si perde tra le nuvole. Ci sono questi due poli antinomici, inconciliabili, tra cui siamo in tensione.
Ma forse è proprio questo che ci rende attivi e luminosi, come la luce che scaturisce quando sono presenti due poli elettrici opposti. Un solo polo, pur se molto potente, non produce nulla. Il cristiano e la cristiana siamo sempre combattuti un po’ come Cristo tra queste due realtà, crocifisso tra il verticale della fede e l’orizzontale del buon senso che occorre avere su questa terra.
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Quando i Magi, persone di scienza e di fede, arrivarono alla mangiatoia, trovarono un bambino che non parlava e non faceva miracoli, eppure ebbero la visione del Messia in un bambino avvolto nella debolezza e nella fragilità. Il loro racconto invita anche noi ad essere persone di scienza e di fede! Se siamo solo l’uno o l’altro saremmo come un uccello a cui manca un’ala e che si dibatte senza riuscire ad elevarsi.
Cosa può significare questo per noi che ci accingiamo a iniziare un nuovo anno? Davanti a noi ci guida la stella della fede e ci spingerà oltre i nostri confini culturali e religiosi.
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Una persona di scienza deve accettare che tutto evolve nella storia e la religione non fa eccezione.
Anche la fede evolve!
Perciò da un lato non esistono dottrine definitive. Se da un lato ciò richiede che una persona di scienza deve regolarmente sottoporre tutto a critica, dall’altro una persona di fede deve anche saper resistere alle mode culturali e a non lasciarsi prendere tutto dalla scienza.
La fede, vissuta all’interno della chiesa, è custodita dalle dottrine che potrebbero anche soffocarla, ma occorre ritornare sempre alla domanda che Gesù rivolge ad ognuno di noi e che sta al centro dell’Evangelo: “E voi, chi dite che io sia?”.
È una domanda che sollecita una risposta e, quindi, una ricerca delle parole, dei concetti, del modo di comprendere chi è questo Cristo per noi. Non siamo credenti solitari, però, nati e cresciuti su un’isola deserta, senza storia, senza dialogo, senza riconoscere la risposta che altri cristiani o i non credenti hanno dato alla domanda di Gesù. La funzione primaria della dottrina, nel senso di costruzione teologica, è aiutare a formulare la propria risposta personale. La teologia, prima di ogni altra cosa è un invito a spingere le nostre riflessioni un po’ più in là dalla meta a cui ci hanno condotto i nostri padri nella fede… e qualche volta un po’ più in qua!
Per questo la teologia ha anche la funzione di insegnarci ad avere uno spirito critico e a non prendere tutto ciò che viene detto su Dio come verità definitiva. La teologia ha un suo percorso storico, che ci invita a rileggere ogni dottrina nel contesto della sua elaborazione.
E per fare questo ci vuole intelligenza, franchezza e coraggio!
Innanzitutto si tratta di distinguere le argomentazioni che riguardano la fede in sé dalle pressioni culturali esercitate dall’esterno per cambiarla e per riformarla. Ci si può evolvere nella fede perché lo richiede la sua logica interna, perché è proprio della fede tendere a cambiare la persona. La fede è vivace, dinamica ed evolutiva.
La riforma della fede, però, non deriva unicamente da cause interne: essa si rivela necessaria quando cambiano i riferimenti culturali di una società, rendendo necessario un rinnovo della comunicazione della fede, che rischia di divenire non più ricevibile per la maggior parte delle persone.
La fede non si deve solo “riformare”, come hanno fatto 500 anni fa Lutero e i riformatori svizzeri, ma anche “riformulare”. La critica teologica ha il compito, allora, di perseguire una strategia d’adattamento. Il concetto di “adattamento”, è preso in prestito dalla biologia evoluzionista, perché - sul piano culturale - si tratta di un fenomeno simile.
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L’idea che la fede cristiana sia una forza riformatrice e trasformatrice è confermata dalla sua origine. Il cristianesimo, infatti, non è una creazione originale, ma un movimento riformatore giudaico. Ebraismo e cristianesimo sono la stessa religione, all’interno della quale la fede si è evoluta e intorno al ’70 d.C. ha creato due rami che si sono separati: il giudaesimo e il cristianesimo. La suddivisione delle Scritture cristiane in due Testamenti, l’Antico e il Nuovo, sottolinea il carattere evolutivo della fede.
Cristo ha reinterpretato il giudaismo, trasformando il suo carattere giuridico nazionale in una religione universale dell’amore di Dio e del prossimo. L’esegesi storica dei testi biblici rivela che, all’interno del giudaismo e poi del cristianesimo, si combinano diversi modelli teologici; questo ci permette di considerare la storia della Chiesa come un processo continuo di creazione di dottrine. Perciò, a cominciare dall’impulso dato da Gesù, poi da Paolo, le riforme della fede vedono sempre un doppio movimento di ritorno alle origini e di rinnovamento spirituale, che non è e non può mai essere un semplice meccanismo di fuga in avanti.
Gesù di Nazareth richiamava il giudaismo alle necessità della società ellenistica, individualista e pluralista, di quel tempo. Gesù si rivolse a tutti, non solo agli ebrei: senza farsi troppi problemi di nazionalità o religione; si preoccupava prima di tutto della salvezza, del benessere spirituale e della salute di chi gli stava davanti.
Gesù non difende la religione: difende il rapporto con Dio!
A partire dal Rinascimento i progressi delle scienze moderne sono stati le principali cause esterne di adattamento delle dottrine cristiane, che hanno dovuto confrontarsi con le nuove teorie sulla creazione dell’universo, della terra, della vita e dell’uomo. Dopo aver rinunciato alla verità storica del racconto della Genesi, uno dei principali obiettivi della teologia è stato adattare la teologia accademica alle acquisizioni scientifiche, per non farla cadere in discredito e a non farla tacciare di oscurantismo. Oggi, il dialogo con le scienze rimane una delle principali sfide della teologia.
In definitiva, la costante necessità della critica teologica è una conseguenza della nostra insoddisfazione esistenziale. Se, come suppone il cristianesimo, il fine dell’uomo è la riunificazione con Dio prefigurata e compiuta nel Cristo, fin quando saremo in questo mondo ci sentiremo lontani da Dio.
Questa mancanza di pienezza crea in noi il cammino umano tra scienza e fede, il costante desiderio di cambiare e migliorare la realtà per avvicinarci alla perfezione. È la visione che guida ogni progresso umano. È il cammino dei Magi.
Il "Regno di Dio", motore e fine dell’evoluzione, si pone però al di là di ogni nostra possibilità di riforma. Per quanto siano necessari, i nostri sforzi per trasformare la realtà non ci permettono mai di superare lo stadio della fede; attraverso la fede possiamo intravedere il regno della verità, senza poterlo mai raggiungere.
Mi piace pensare che l’uomo non è ancora uomo, che il nostro compito è far sì che l’uomo, andando verso Dio, divenga davvero uomo. Noi siamo figli di Dio, e al tempo stesso è nostro compito “diventarlo” (Giovanni 1:12-13).
Questo è stato il cammino dei Magi.
Forse non è un caso che Luca, il medico, lo pone all’inizio del suo Vangelo!
Infine, dobbiamo essere consapevoli che la fede può essere vissuta entro molti tipi di spiritualità. Riconoscere il primato della fede significa aprire il campo delle possibilità. Alcuni vivranno la loro spiritualità nel segreto della loro preghiera intima, altri nel contesto di un ritiro in un monastero, altri ancora scrutando i testi biblici in atteggiamento di preghiera, oppure nella condivisione del culto comunitario. Niente viene imposto, bensì è il risultato di una scelta personale, libera e liberata dalle ingiunzioni dei dogmi. Inoltre, relativizzando il peso delle dottrine, si dà più spazio alla prassi, all’azione nel mondo. Rispondere alla domanda centrale dell’Evangelo è anche un invito a impegnarsi nell’azione concreta: a vedere nell’altro il volto del Cristo.
Davanti a noi ci guida la stella della fede: sapremo seguirla? sapremo spingerci oltre i nostri confini culturali e religiosi?
Lasciando alle spalle ogni sostegno religioso e culturale, sapremo rispondere alla domanda di Gesù: “Per te chi sono io nella tua vita”?