Genesi 12, 1-4
1Il Signore disse ad Abramo: «Lascia la tua terra, la tua tribù, la famiglia di tuo padre, e va' nella terra che io ti indicherò. 2Farò di te un popolo numeroso, una grande nazione. Il tuo nome diventerà famoso. Ti benedirò. Sarai fonte di benedizione. 3Farò del bene a chi te ne farà. Maledirò chi ti farà del male. Per mezzo tuo io benedirò tutti i popoli della terra». 4-5Abramo partì dalla località di Carran, secondo l'ordine del Signore. Aveva settantacinque anni.
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Siamo entrati in Quaresima da poco più di una settimana. Dopo i bagordi e i disordini di carnevale dei nostri ragazzi e di un po’ di ex-ragazzi, in cui qualcuno ha esagerato e qualche giovane purtroppo anche quest’anno ha perso la vita.
La quaresima è un tempo di cammino. È un tempo in cui si rallentano i passi per guardarci dentro e specchiarci sulla nostra anima. Gesù vuole tentare ancora una volta di condurci in disparte, in questa quaresima, desidera compiere con noi un percorso arduo in cui mettiamo da parte le nostre abitudini alimentari, per riflettere su ciò che è veramente essenziale, su ciò che veramente conta nella vita e su ciò che invece è superfluo.
In realtà la Quaresima vorrebbe essere uno scossone alla nostra vita e una riflessione sulle nostre certezze! Gli evangelici non amiamo fare il digiuno quaresimale, seguendo la parola della lettera si Romani in cui l’apostolo scrive che «il regno di Dio non consiste in vivandané in bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo » (Romani 14,17). Ciò vuol dire che intendiamo seguire in questo periodo un percorso di solidarietà con chi vive una qualche ingiustizia, adoperarci perché vi sia pace e pane per tutti, e per ritrovare quella pace interiore, quell’equilibrio umano che solo lo Spirito di Dio può aiutarci a ritrovare.
Ma non è così!... “Etsi Deus non daretur”: come se Dio non esistesse!
È una espressione latina, coniata nel 1625 dal filosofo olandese Ugo Grozio e spesso tradotta con: “Come se dio non esistesse”. In realtà la traduzione esatta è: “Anche se dio non esistesse”. Il filosofo voleva infatti affermare che vi è una legge naturale e dei valori universali validi di per sé, che Dio esista o meno, che tu ci creda o no. Vita, nascita, morte, malattia, salute, sofferenza, amore sono per tutti. Diritto alla vita, alla salute, al lavoro sono per tutti.
Non è un caso che, nel periodo quaresimale, le chiese cristiane svizzere sosteniamo della attività di solidarietà chiamandole “Pane Per Tutti” e il cui motto di quest’anno è “Senza terra manca il pane”, invitando le comunità a mettersi in cammino.
In cammino verso dove?...
Libertà, giustizia, lavoro, pane, istruzione sono un diritto di tutti “Anche se dio non esistesse”. Questi valori non sono un dono di Dio solo per i credenti o, peggio, solo per i cristiani: per tutti! Siamo stati viziati delle nostre chiese a ritenere che qualcuno possa essere benedetto da Dio e qualche altro no! Dio non è forse padre di tutti? Non è forse padre dei credenti come degli atei, dei cristiani come dei musulmani, dei buddisti come degli indù? Il Dio di cui ci ha parlato Gesù non è un Dio razzista… né un parroco o un pastore che pensa solo e soltanto al bene della sua parrocchia!
Noi percorramo la via di Cristo “Etsi Deus non daretur”: come se Dio non esistesse! Abbiamo battezzato i nostri bambini puri e innocenti per farli diventare cristiani come lo siamo noi? Stiamo scherzando?… A voi e a me stesso chiedo: dov’è finita la nostra anima?... dov’è finita la nostra fede e qual è il suo significato reale nella nostra vita?
Noi crediamo che Dio esiste! Lassù nel cielo, da qualche parte… e nella speranza che si ricordi di noi nel momento del bisogno, del dolore o dello smarrimento… Ma lo crediamo veramente che questo Dio viva nella nostra vita? nella nostra mente? nelle nostre parole e nelle nostre azioni?... Lo crediamo che Egli ci è accanto e ci è compagno nel cammino dell’esistenza… e oltre?
Il brano biblico di oggi ci richiama a elevarci a un livello più alto. Lo fa per permetterci di tornare in noi stessi, per riafferrare l’essenziale, per riaffermare che siamo dei cercatori, per lasciare, infine, che la nostra anima ci raggiunga liberata dalla superficialità di cui la religione, ogni religione, c’ingozza e di cui le società occidentali c’infarciscono avviandoci verso una monocultura fatta di edonismo e individualismo!
Dio ha inserito l’essere umano in un ecosistema. Poi l’umanità ha voluto innalzarsi verso il cielo costruendo la torre di Babele: è diventata una monocoltura e ha negato la diversità della creazione e nella creazione, nella natura e tra gli esseri umani.
Oggi ritroviamo il racconto della creazione nell’attualità del land grabbing. Il “Land grabbing” (letteralmente: «accaparramento della terra») identifica una controversa questione economica e geopolitica venuta alla ribalta nel primo decennio del XXI secolo, riguardante gli effetti di pratiche di acquisizione su larga scala di terreni agricoli in paesi in via di sviluppo da parte di multinazionali e togliendola alla sussistenza della povera gente.
Dal 2008 imprese e fondi d’investimento hanno acquisito una superficie di terra vasta come dieci volte la Svizzera. Le monocolture agricole sono lo specchio e il simbolo di una monocultura che paralizza il nostro cervello, il nostro libero pensare, e nega i principi della vita a cui tutti hanno diritto. Questi campi sconfinati sono la nostra torre di Babele, perché abbiamo costruito sulle nostre esigenze chiudendo gli occhi sulle esigenze di altri. Ma dopo il fallimento di Babele, Dio apre un nuovo capitolo nella storia dell’umanità: Abramo riceve solo una vaga promessa; eppure questa diventa una visione così forte da smuoverlo.
Quella promessa è stata fatta anche a noi e così oggi una parte dell’umanità sente il bisogno, mossa dalla chiamata di Dio, di mettersi in cammino e seguire uno stile di vita ricco di senso e basato sul rispetto della diversità della vita. Quelli che dicono che non c’è alternativa alle monocolture, alla crescita e al nostro stile di vita, ritengono che la nostra visione sia un’utopia. Ma qualcosa ci spinge a ripensare le nostre società. In quella promessa noi leggiamo qualche cosa che altri forse non hanno ancora percepito. Oggi mettersi in cammino come Abramo significa entrare nella dinamica della vita.
Questo è il cammino su cui siamo chiamati a percorrere!
Con voi mi chiedo perché il popolo cristiano si sia così tanto allontanato dalla fede, dal Vangelo e dalla Chiesa?...
Forse perché la Chiesa, ma anche le altre religioni, non hanno molto da dire. Forse perché le chiese cristiane, ma anche le altre religioni, lungo il corso della storia si sono rivelate conniventi e alcune volte persino protagoniste di tragedie come la schiavitù, le discriminazioni sociali e il maschilismo che per secoli hanno oppresso le donne, i poveri e i deboli. L’aspetto più triste è che tutto questo non è da addebitare al peccato di singoli, di questo o di quel papa, di questo o di quel fanatico religioso, ma sono la conseguenza di una teologia e di un modo di vivere il rapporto con Dio dentro schemi religiosi costruiti da una gerarchia culturale il cui potere stava nelle “parole” e non nei “fatti”, nei miti e non nella libertà della ricerca umana, nel “sacro” e non in Dio!
Perché il popolo cristiano si è così tanto allontanato dalla fede, dal Vangelo e dalla Chiesa?...
Forse perché nell’attuale contesto culturale, in cui il mondo contemporaneo è caratterizzato da trasformazioni permanenti, la Chiesa, ma anche le altre religioni, legati ai loro antichi modelli culturali espressi in concetti e linguaggi del passato, si rivelano incapaci di parlare all’umanità di oggi e a testimoniare che l’amore di Dio è traboccante e fuoriesce dagli schemi della religione e della stessa Chiesa! Dio ha a cuore l’uomo, ci ha insegnato Gesù, e non la religione! Dio ha a cuore ogni essere umano, sia uomo che donna, che Gli sono figlio e figlia!
Di fatto c’è un profondo abisso che separa il linguaggio religioso dalla sensibilità della maggioranza della società, principalmente quella giovanile. Possiamo costatare questo nelle nostre stesse famiglie di tradizione religiosa, in cui le nonne e i nonni, che hanno cercato di testimoniare la fede, possono costatare come i figli e i nipoti sembrano lontani dalla religione così cara agli anziani e alla quale da questi sono stati avviati.
Perché?...
Forse perché siamo diventati dei credenti, dei battezzati che vivono la propria fede “Etsi Deus non daretur”: come se Dio non esistesse? Forse perché siamo travolti dalle cose che facciamo e che, troppo spesso, ci definiscono e ci divorano. Forse perché non abbiamo tempo per riflettere sulla nostra stessa vita, oltre che sulla fede, e sulla nostra ossessione del “pane”… dimenticando che “non di solo pane vive l’uomo”, che non può vivere solo di beni materiali...
Sì, abbiamo bisogno di deserto, di riacquistare il senso dell’essenzialità… di andare oltre il pensiero comune ed elevarci a un livello più alto o, se preferite, più profondo! Siamo chiamati ad uscire dai nostri schemi tradizionali con fiducia e coraggio, come ha fatto padre Abramo, il primo credente della storia.
Nel testo originale ebraico della chiamata di Abramo si legge Lekh lekhà! che traduciamo con va’ via! «E il Signore disse ad Abramo: “Vattene dalla tua terra, dalla tua patria, dalla casa di tuo padre”». “Lech lechà”, gli disse. Una parola che nel mistero della lingua ebraica si potrebbe tradurre sia «vattene» sia «vai verso te stesso» come se all’interno di quell’imperativo fosse implicito il segreto di ciò che tutti stiamo cercando.
Perché quando Dio dice ad Abramo di andarsene, costruisce la frase mettendo nell’ordine per prima la sua terra, poi la sua patria e per ultima la casa del padre? Non sarebbe più logico il contrario? Prima si esce di casa, poi dalla propria reione e infine dalla nazione. In realtà l’ordine di quella frase si riferiva a un percorso molto più difficile e complesso. Si riferiva a una geografia interna e non esterna. Quell’imperativo che spingeva Abramo lontano da casa lo invitava principalmente a mettere in crisi la vita che la sua terra gli offriva, in seconda battuta a prendere le distanze dalle verità accettate dalla sua gente. E infine, come ultimo e più difficile passo, a mettere in discussione anche le certezze e gli insegnamenti familiari, bagaglio che spesso ci chiude dentro prigioni invisibili, galere, le cui sbarre sono fatte dai «si può o non si può» con cui cresciamo, dai «si deve e non si deve», dalle convenzioni che passivamente accettiamo senza contestare e che poi diventano pienamente accettate, integrate all’interno di un’etica nata da una particolare società e non per l’umanità.
Lasciare la casa del padre per Abramo significa mettere in discussione le verità dentro cui è cresciuto e di cui si è nutrito. Significa rifiutare che la vita vada in un’unica direzione e correre il rischio di scoprirsi solo in un percorso fatto di incognite. Significa contestare frasi tipo: “Tanto non cambia nulla”, “Non possiamo fare nulla davanti alle tragedie dell’umanità”. Ho visto molti accettare passivamente quello che nella società, in famiglia, a scuola o attraverso i media gli viene detto. Tutto ciò che viene assorbito acriticamente, anche se proposto con amore e sincera preoccupazione, rischia di soffocare il cammino verso spazi di “verità altre”. A volte le gabbie più difficili da rompere sono quelle dentro “casa” nostra, fatte di diffidenza e disincanto. La stessa Chiesa, le stesse religioni, possono essere una gabbia… una prigione del pensiero e dell’anima.
Allora forse quel «lech lechà», quel «vattene via» parla di un allontanamento non fisico ma decisionale, un cambiamento non di luogo geografico ma di quel luogo della mente che ha a che fare con una nostra presa di coscienza che generi un atto di volontà.
Allontanarsi dalle frasi fatte, dagli stereotipi, dalla facile disillusione, dalla rinuncia in partenza a modificare quello che non ci permette un futuro. Uscire significa, allora, entrare. Entrare in sé, scoprire la dimensione della propria interiorità che abbiamo trascurato, accorgerci di avere un’anima…
Siamo chiamati a riconoscerci viandanti, cercatori, mendicanti di bellezza e di luce. Chiamati a sperimentare la bellezza assoluta che non s’identifica col lusso, con lo sfarzo, con l’eccesso, ma che risuona in noi come nutrimento per l’anima: una bellezza che riflette la nostra natura profonda, così spesso appesantita da mille brutture...
Immaginiamo di partire per una gita in montagna. Chi si sognerebbe di caricarsi sulle spalle il frigorifero? O il televisore?... Eppure, quante cose superflue ci trasciniamo dietro e ci carichiamo lungo il breve cammino della vita.
Che cosa porto con me? Cosa lascio indietro? Cosa mi serve veramente per la mia esistenza? La Scrittura c’invita ad aprire spazi in cui confrontarsi con se stessi e con la realtà vissuta da chi vive nel Sud del mondo… di chi ha necessità del nostro stesso superfluo, di chi, per poter sopravvivere, raccoglierebbe ciò che noi buttiamo.
Auguriamoci che il denaro non diventi prigione, che la fede ci renda irrequieti quando diventiamo troppo soddisfatti di noi stessi, quando i nostri sogni si sono avverati solo perché troppo piccoli o quando crederemo di navigare in acque tranquille soltanto perché non ci siamo allontanati dalla costa. Auguriamoci che Dio ci renda inquieti quando l’abbondanza di beni materiali ci fa perdere la sete dell’acqua viva. Cristo ci vuole coraggiosi e arditi, affinché osiamo affrontare il mare aperto con fiducia di saperci accompagnati sempre dal Signore della vita.
12 marzo 2017